STORIA
NARRATA DA UN OPERAIO TORINESE AVVINAZZATO
ALQUANTO
AD UN ITALIANO DELL'OLTRE MA MOLTO OLTRE
FIUME
PO
ovvero
(
LA METAMORFOSI DI GRAMSCI )
DI
TULLIO
MARRA
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L’autore Tullio Marra romano di nascita ma emiliano d'adozione ha
scritto questo romanzo, e lo ha immesso in una pagina web gratuita in quanto
vari editori cui ha proposto l’opera hanno risposto proponendo la pubblicazione
a spese dell’autore. Il Tullio è un
programmatore, e senza difficoltà lo ha
pubblicato in questa pagina web.
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Il romanzo è composto di due parti, nella prima parte sono descritti gli avvenimenti attraverso i quali conobbi questa vicenda. Ad essere sinceri, la mia conoscenza diretta di questa storia, si limita ad un solo episodio certo in quanto appurato in prima persona, davvero poca cosa per l' attendibilità del racconto. La conoscenza per la descrizione fattami di tutta la vicenda è invece ampia, anche se, dal momento in cui i fatti narrati nella seconda parte mi furono noti, ad ora che mi sono deciso a metterli per iscritto, sono passati molti anni, perciò la completezza, la freschezza dei fatti stessi ne risente. Il dubbio era se scrivere tutta la storia e costruire un romanzo d'ambiente, un polpettone da mille pagine. Non lo feci per pigrizia e perché avrei disperso quello che invece ritengo il cuore della narrazione, narrazione che sarà a volte lacunosa, con veri buchi neri. Ammetto che un unico "riscontro oggettivo" potrà essere considerato un "animula, vagula, blandula" come prova indiziaria, ma, ripensando alle particolari circostanze tramite le quali questa vicenda è giunta alle mie orecchie, la sensazione di non trovarmi di fronte a descrizioni mitomane è forte, una certa veridicità mi è sembrata di coglierla. Con il senno di poi" a volte rimpiango di non aver fermato come si suol dire le bocce ed esaminato a fondo il tutto con la competenza necessaria, come si fa per i reperti archeologici, forse oggi avrei qualcosa di tangibile in mano. È evidente quindi come qualcosa per carenza investigativa o d'analisi mi sia effettivamente sfuggito.
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INCONSAPEVOLE... O GRULLO |
Il
canto delle rondini trasformatosi in un forte e continuo stridio distolse la mia
attenzione dalle pile di libri e quaderni scolastici riposti negl'anni con cura
amorevole da mia madre in alcuni scatoloni, a partire pensate, dalla prima
elementare...!, e sino alla licenza liceale.
Consideravo
ciò solo "rusco", per questo mi accingevo a caricarli in macchina e
scaricarli presso l'isola ecologica comunale,
destinandoli ad un' attività sicuramente proficua, il riciclo, ecco la
degna fine che meritavano.
Osservai attraverso i vetri della finestra la causa di quel trambusto, una rondine penzolava da un nido, probabilmente nell'uscirne con la zampetta era rimasta incastrata all'ingresso del nido, si dimenava per liberarsi e cinguettava a tutto spiano. La scena si svolgeva sotto un cornicione del palazzo a fianco, una scuola elementare, era domenica e lì non c'era nessuno. Dopo qualche tempo le rondini dei nidi vicino cominciarono a volteggiarle intorno, nel giro di qualche minuto si organizzarono, volando in cerchio dall'alto verso il basso in modo che nella fase discendente del loro volo, in picchiata, stando con le ali ripiegate sfioravano la loro compagna, cercando di liberarla.
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Rivolsi di nuovo lo sguardo verso gli scatoloni, avevo convinto mia madre a liberarsi di tutti quei ricordi del passato, ricordi ridicoli, soprattutto da quando capitando per caso in alcune cantine di miei ex compagni di scuola, notai come si trovassero conservati gli stessi identici libri, quaderni, ricerche, eccetera... l'unica personalizzazione permessa riguardava lo stile di scrittura. Presi male la cosa, vedendola come un appiattimento sia pure verso l'alto della nostra formazione personale. Per i libri dell'università il problema non si era posto, ero riuscito a liberarmene rivendendoli tutti. Eh... si, un po' di dispiacere alla mia cara mammina gliene avevo procurato, d'altronde le avevo fatto notare come nessuno in famiglia conservasse ancora la clava dei nostri avi. Ritornai a guardare attraverso la finestra la rondine, era sempre impigliata poverina, non riusciva a liberarsi, le compagne continuavano nei loro tentativi per liberarla. Uscii da casa per scaricare il "rusco" presso l'isola ecologica, tutto soddisfatto di liberarmi finalmente di quel tipo di ricordi della mia infanzia. La ragione di tutto ciò trovava la sua causa efficente nel fatto che domenica mi sposavo, desideravo iniziare una nuova fase della mia vita senza questo "rusco" antipatico, inutile e senza valori significativi. Ritornai a casa, salutai e baciai mia madre, sorrideva, il dispiacere le era passato, assicurò che avevo fatto bene. Andai sul balcone, accesi una sigaretta, volsi lo sguardo al solito posto curioso di seguire la
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rondinella nella sua peripezia. Penzolava ancora, si agitava di meno, le
compagne impegnate a liberarla erano diminuite, avevo osservato con attenzione
il loro comportamento, si erano organizzate bene, ogni tanto a turno si
staccavano dal cerchio per andare ad accudire ai loro piccoli, sbrigata
l'incombenza ritornavano ad aiutare la malcapitata rondinella, il suo compagno
faceva altrettanto con i propri piccoli. Verso sera solo qualche rondine si
avvicinava, lei aveva smesso di divincolarsi. La mattina successiva appena
sveglio andai ad osservare l'epilogo di questo piccolo dramma della natura. La
rondine penzolava immobile, osservai il suo compagno mentre imbeccava i piccoli
aiutato da qualche compagna.
Prosegui nelle faccende della mattinata, lanciando di tanto in tanto delle occhiate verso il nido. Erano circa le dodici quando notai tutte le rondini riprendere a volare con rinnovata frenesia in cerchio e scendere in picchiata verso la loro compagna oramai stecchita questa volta invece non la sfioravano, andavano giù duro, la colpivano, il loro intento era di staccarla dal nido, capivano che quel corpicino senza vita era pericoloso per la salute dei piccoli rondinini rimasti nel nido, riuscirono in breve a farla cadere. Guardai il cornicione con i nidi delle rondini, osservavo quella cittadella pensando tra me che forse le rondini dovevano avercela un "animula".
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PREFERIVO UN INIZIO TIPO:
"HO FATTO SEI ALL'ENALOTTO". |
Rimuginavo sul mio programmato prossimo futuro, al matrimonio, al viaggio di
nozze, alla nostra nuova casa vicino
Torino, al nuovo lavoro, non v'era in verità un esigenza a tutto questo cambiamento
probabilmente l'impulso nasceva da qualche fattore genetico. Vedevo tutto ciò
come una liberazione, liberazione non da un brutto passato, liberazione e
basta.
Mio
padre, mai madre avevano fatto sacrifici immensi per permettermi di studiare,
ero riuscito a prendere uno straccio di laurea, ma come tutti sanno c'è laurea
e laurea, ad esempio esiste quella a honorem conferita in genere a qualche
operaio diventato famoso nel mondo per la sua miseria, c'è quella data con
centodieci e lode ai vari supercervelli, non dimentichiamo la più importante,
quella concessa per "raccomandazione estrema", in altre parole all'insaputa
dell'interessato, poiché passa la maggior parte del tempo alle Canarie.
Queste meditazioni ben conosciute e combattute da mia madre, in quanto deleterie alla maturazione della mia "forma mentis"; ripeteva la mia cara mamma: "Così giovane e così acido". Già come potevo essermi formato una personalità migliore, avendo vissuto l'asprezza dei sacrifici affrontati da me e dai miei per conquistarmi questo pezzo di carta, considerato una specie di passaporto per il passaggio in un mondo migliore, per un salto di qualità, probabilmente genetizzato da generazioni e generazioni di aspirazioni sempre uguali e mai concretizzate. In verità sognavo una vita di quartiere tra gente conosciuta, solidale ed amica, tutti sogni in verità, nel quartiere di estrema periferia ove vivevo l'emarginazione sociale regnava sovrana e dove il degrado dell'ambiente s'accompagnava al degrado delle persone, anche dove con mia sorpresa tanti ragazzi come me erano riusciti ad emergere a realizzarsi, mentre gli sconfitti, i vinti della vita, erano invece parte essenziale del successo di scrittori, sociologi, e registi cinematografici.
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PROPOSTA DI
MATRIMONIO
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Ripensai al modo come decidemmo infine di sposarci, perché in realtà la nostra
stupenda storia d'amore sonnecchiava, s'adagiava in una quotidianità fatta di
abitudini serene e tranquille, il resto, cioè il matrimonio era implicito se ne
parlava ma senza fretta con calma, così come ora camminando lentamente andavo
inoltrandomi nel parco per recarmi al nostro solito appuntamento realizzavo
compiutamente in me l'esigenza di un cambiamento di rotta nella nostra vita.
Da lontano vidi Marina seduta sulla "nostra" panchina, assorta a leggere un giornale, guardai l'orologio ero in orario, avvicinandomi ripercorrevo mentalmente le parole circa il discorso da farle sul nostro avvenire, era tempo di maturare una decisione in tal senso, anche perché altri avvenimenti incombevano sul nostro futuro. Sedetti accanto a lei, senza distogliere l'attenzione dal giornale mi mise il braccio sulla spalla, chiesi:
- "cosa leggi"
- "cerco casa"
- "perché ?"
- "sono incinta"
-"Anch'io ho una notizia da darti",
-"Spara mio sgarullo",
-"Sono stato chiamato in direzione, mi hanno fatto una proposta proprio
allettante",
-"Ti devi accompagnare con un negrone",
-"Ma no ti parlo della mia carriera",
-"Sentiamo",
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-"Mi hanno proposto di trasferirmi a Torino, alla direzione
centrale",
-"E in cambio",
-"Due promozioni nel giro di un anno e un incentivo corrispondente
ad un anno di mensilità".
Marina alzò la testa il suo sguardo errava nel cielo vista una nuvola
la fissò intensamente, sospirando rispose:
-"In quella città saremo degli sradicati, ma dato che purtroppo il
mio amore è bello ma povero in canna, dobbiamo approfittare di quest'occasione,
in seguito cercheremo una sistemazione migliore, dato che dobbiamo iniziare a
vivere insieme, un posto vale l'altro, l'hai
detto alla mamma".
Anche se sotto forte choc per queste sue affermazioni riuscii a rispondere:
-"Si",
-"Come ha reagito",
-"Non ha pianto, ha abbassato lo sguardo",
-"Capisci che io sarò sola, tutta sola, con il mio bimbo nella
pancia",
-"Beh Marina, nel Far West, le donne come se la cavavano, eh ?",
Lei guardandomi preoccupata, mi rispose gentilmente:
-"Cornuto, che fai mi prendi in giro ?".
Ecco narrato come si svolse la proposta di matrimonio...., tempi moderni.
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IL MATRIMONIO |
La futura suocera come spesso avviene prese possesso del nostro
matrimonio, aveva curato tutti gli
aspetti, anche per le sue lacrime, abbondanti tanto che uno dei due testimoni
ex moroso della mia futura metà esclamò: "Matrimonio bagnato matrimonio
fortunato", lo guardai compiaciuto, stavamo aspettando Marina, ero teso,
avevo sempre sentito dire come il matrimonio sia da considerare la festa più
bella, soprattutto dopo l'introduzione del divorzio, in quanto è divenuta ripetibile.
Dissi al mio compare d'anello: "Solo gli anni diranno chi di noi due è
stato il fortunato", e lui di rimando: "I mesi vorrai dire". Bel
compare d'anello pensai tra me, Marina lo aveva voluto invitare a tutti i
costi, faceva moderno.... diceva lei.
La cerimonia, Il rinfresco, lo spumante versato nei calici, tutto passò come un turbinio, da parte mia feci la mia parte, la parte dello sposo cioè, in modo dignitoso, le mie donne non brontolarono, mia madre fu lesta nel riprendermi appena accennai a mettermi una mano in tasca, non stava bene secondo l'etichetta. Tutto mi stava venendo a noia riflettevo tra me come il tutto potesse in realtà essere semplificato con una semplice dichiarazione di "maritalis affectio" da far registrare presso un ufficio dell'anagrafe comunale.
Ci defilammo secondo prassi prima della fine del rinfresco, l'idea di sparire insalutati ospiti fu di mia madre, l'idea fu subito accettata sia da Marina sia da sua madre, cosicché sparimmo, ed iniziammo il nostro viaggio di nozze, in una nota località del Mar Rosso in Egitto, il trasferimento all'aeroporto e il viaggio non furono momenti proprio felici, tra disservizi e scioperi ci toccò accamparci alla buona, ci voleva il Carro di Icaro per andare bene. Infine arrivammo in Egitto, passammo dieci giorni belli, tranquilli e felici, Marina aveva sempre sognato il viaggio di nozze, rientrava nelle sue aspirazioni, affermava che un matrimonio senza viaggio di nozze nasce incrinato. Mi venne il sospetto che fosse sì un suo sogno, ove però il "principe azzurro" era da considerarsi un aspetto secondario della cosa. "Carpe Diam", ahimè dovemmo ritornare com'è nell'ordine naturale delle cose. Ritrovai intatta la macchina lasciata al parcheggio pubblico dell'aeroporto di Fiumicino, da lì iniziammo il nostro lungo viaggio con destinazione il nido degli sposini.
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SALUTIAMO L'AMICO LALLO
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Prima d'intraprendere il nostro lungo viaggio in autostrada andai come promesso
a salutare il mio amico Lallo, abita in una traversa di via Nomentana poco dopo
l'ambasciata Libica prima dell'incrocio con via xxxxxxxx, in una villetta sede
di una nota casa cinematografica paga l'affitto facendo il custode e alloggia
in una piccola mansarda, Un amico conosciuto da giovane, un tipo magro, alto,
anziano, con la passione delle ragazzine, proprio così, l'età doveva essere
assolutamente sotto i venti, non era pedofilo, le voleva già donne.
Lavorava arrangiandosi in attività varie, d'inverno con una sala bigliardi e nella stagione estiva gestendo un piccolo chiosco sulla spiaggia di Ostia con annesso un piccolo posteggio per auto vicino alla foce del Tevere, serviva bibite, panini e gratta checche. Il posto rappresentava un oasi di tranquillità e pulizia in quell'angolo del litorale romano dove il solito degrado ambientale regnava indisturbato. A noi compagnia del Bar era permesso frequentare quel posto, basta che non disturbassimo e frequentassimo le sue presunte conquiste, lasciandoci quelle da lui reputate troppo serie o inabbordabili.
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Ecco questo era Lallo, una delle poche persone della sua età accettato da noi
ragazzi, perché: non pedofilo, non arteriosclerotico, non saccente, non era
voluto venire al nostro matrimonio, mi aveva chiesto di andarlo a trovare prima
di lasciare Roma, cosa che infatti mi accingevo a fare. Ci fece entrare nella
sua mansardetta, disadorna e per questo poco in disordine, Guardammo il suo
album di foto ricordo, emiliano di nascita amava da giovane correre in
bicicletta, alcune foto lo ritraevano in abito da ciclista sportivo, disse di
aver vinto poche corse, erano in troppi più forti di lui. Ci salutammo con
promesse reciproche, dopodiché iniziammo il nostro viaggio di verso la nostra
nuova casa, nella nostra nuova vita, lasciando senza molti rimpianti una città
dove l'emarginazione la s' incontrava in ogni angolo della strada, dove per me
abitante del centro di Roma non esistevano spazi quieti, ma solo isterico caos
cittadino. Una città dove dall'alba della vita mi ero trovato a combattere nel
senso propria della fisicità per emergere nel nulla della vita di quartiere,
per essere additato come il passante più lento del quartiere quindi con il
soprannome di tartaruga. La mia lotta per emergere da questo squallore fu dura,
silenziosa e caparbia. Colta alfine un'opportunità lasciavo tutto senza
rimpianti e con qualche cicatrice nella personalità.
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Appena ripartito mi risalì alla mente senza una ragione precisa la prima volta
che vidi Marina, avvenne al laghetto di Villa Borghese abituale ritrovo di noi
studenti quando si faceva focaccia a scuola, là i rumori della città giungono
ovattati, godendo nel pieno centro di Roma una quiete insperata dal caos
cittadino. A volte tramite una colletta tra compagni di scuola si
raggranellavano i soldi per noleggiare la barca e starsene in beata pace al
centro del laghetto, talvolta alcune ragazze ci accompagnavano, cedendo come
tributo una parte della loro merenda, e se era il caso dirigevamo la barca
verso l'isolotto, arrivati coprivamo le nostre compagne con dei bomber ma non
per proteggerle dal freddo bensì per celare da occhi indiscreti, i
succhiotti gentilmente offertici, e in
quei casi date retta a me che si gode veramente la beata gioventù. Capitò che
un giorno che di ritorno dalla piccola gita sul laghetto di Villa Borghese
notai Marina, stava seduta sopra una panchina dirimpetto al laghetto insieme ad
altre sue compagne, mi colpì per la grazia del suo viso ancora colmo di sogni
di gioventù, penso senza eccessiva presunzione di esserle apparso come Sigfrido o giù di lì, chiesi di lei a
qualche mio compagno di scuola, era giunta da poco in città, occorreva ancora
iniziarla. Il mio contatto con lei avvenne alla palestra di Judo, uno sport che
i miei genitori ritenevano adatto a me, sia per dar sfogo alla mia naturale
esuberanza giovanile, sia per prendere coscienza sul significato del termine
"Dominio di se".
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In genere il posto è frequentato da tipi mingherlini ed emaciati, cosicché non
era difficile tenerli fisicamente a bada, finché un giorno il maestro mi chiese
di esercitarmi con una ragazza che di lì a poco doveva sostenere gli esami per
conseguire il secondo grado Dan di cintura nera, insomma dovevo fare da
"Uke" per l'aspirante, dopo il "Ritzu-rei" iniziammo a
provare le varie tecniche, notai subito che la poverina voleva darci dentro, la
buona volontà c'era ma l'abissale differenza fisica si faceva sentire. Sicché
durante l'esecuzione tecnica di un Kami-Shiho-Gatame, che detto in parole
povere si tratta d'immobilizzare l'avversario a terra, la mia povera faccia fu
coperta dal petto di Marina, la "disgraziata" non teneva nulla sotto
lo Judogi quindi le sue mammelle premevano spudoratamente contro il mio viso,
avevo notato senza malizia invero che lei non portava il reggiseno, normale per
il tipo d'allenamento che si stava svolgendo, quel contatto mi rese ad un tratto
cosciente della differenza di sesso esistente tra noi, la mia aggressività si
smorzo di colpo, la sua no, la malandrina approfittò del momento per
perfezionare la sua presa, sentivo il respiro diventare difficile cercai di
divincolarmi, inutilmente, rimasi immobile ad assaporare quel contatto inusuale
e piacevole.
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Era lei la ragazza che avevo notato qualche giorno prima a Villa Borghese, non
immaginavo che quel viso d'angelo fosse capace di sittanta energia, Sentii la
sua voce: "Allora hai finito di prendere il latte", detti due colpi
con il palmo della mano sul tappeto in segno di resa, rialzatomi e riassestato
lo Judogi rifacemmo il Ritzu-rei, dopodiché un'esperta pescatrice per essere
certa della presa dà di solito un ulteriore strattone all'amo. Come
giustificazione le dissi:
"Scusa ma mi sono ritrovato quel ben di Dio
in faccia ed ho perso la
concentrazione",
"Sei un molle, hai scarsa attitudine alla lotta",
"Non mi permetterei mai di rompere le ossa per divertimento",
"Vuoi continuare negl'esercizi",
"No.... sono stanco".
Sorridendo Marina si diresse verso il suo spogliatoio. Quello che accadde in seguito e il normale innamoramento di due giovani, mi piacque la sua forza interiore, il suo corpo esuberante, i suoi occhi verdi, la sua aria sorniona e placida, falsamente placida. Negl'anni della nostra vita coniugale mi capitò più volte di riandare con la mente agli studi giovanili ripensavo alle norme sul diritto di famiglia abrogate (per inciso quelle riguardanti la potestà maritale) onde permettere la piena eguaglianza di fronte alla legge dei coniugi, in verità quelle norme sul piano pratico permettevano a mariti sprovveduti una certa difesa concreta nei confronti delle diavolerie domestiche della propria metà.
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L'EMILIA
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Ancora mezz'ora e saremmo arrivati a Reggio Emilia, accanto a me Marina
dormiva, serena, il traffico sull'autostrada era scarso, guidavo tranquillo. Il
nostro viaggio di nozze era finito, durato appena dieci giorni, pochi ma era
tutto quello che il nostro bilancio poteva permettersi. Andavamo a far visita a
mia sorella, saremmo rimasti da lei un paio di giorni per ripartire verso la
nostra meta finale: la nostra casa in un piccolo paese appena fuori Torino.
Ripensavo alla rondine e alle sue compagne, il solo caso mi aveva reso testimone di quel dramma, certo in natura cose del genere accadono spesso e non passano ne' per i telegiornali, ne' per le commissioni d'inchiesta parlamentari. Riflettevo come l'intelligenza non è qualità solo umana, non è un distinguo particolare neanche nell'ambito umano. La forza del pensiero logico, quale che sia l'origine del suo sviluppo: educazione, insegnamento, fattore genetico; è causa di distinzione tra noi umani, il resto è: caso, volontà, fortuna, intelligenza. Anche i nostri pensieri non hanno spessissimo testimoni, sì signori, parlo esattamente di quei pensieri che non si manifestano fuori di noi, per cui non sono percepiti all'esterno,
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in quanto non riescono a calarsi nel mondo reale, sono fantasie, immagini che
non trovano corrispondenza negli oggetti esterni. Queste convinzioni si erano
formate in me nell'infanzia, quando rimanevo solo e senza giochi, senza
compagni, fantasticavo allora con la mente inventandomi dei compagni e
facendoli vivere di vita propria, ancora ricordavo i loro nomi
"Uvetta", "Perina", "Melina", erano sensazioni
piacevoli, e quando dall'esterno mi si voleva imporre qualche personaggio delle
fiabe tipo Pinocchio, Biancaneve, Bambi, questi non possedevano quella forza
fantastica capace di soppiantare i personaggi creati dalla mia fantasia.
Proprio così "Uvetta" era più forte di tutti loro, essi soccombevano
sempre.
Marina si era svegliata, stava osservandomi, con un espressione appena accigliata, tipo sguardo cinese. Ecco oramai la conoscevo abbastanza per capire che era in arrivo un tipico temporale estivo, provai a far finta di niente concentrandomi sulla guida, che ingenuo, lei guardò la strada davanti ed esclamò: "Ancora con la testa tra le nuvole, ti si vede sai, la tua faccia assume un espressione ebete che fai ridere", risposi "Marina, tra dieci chilometri siamo a Reggio Emilia". E lei "Pensa alla guida e non ti distrarre, altrimenti a Torino ci arriviamo dentro una cassa da morto". Questi erano i nostri rapporti, Io pronto a staccarmi da terra, Lei pronta a riportarmici.
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IL PARCO DEL POPOLO
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Marina insieme a mia sorella si erano immerse nello shopping del sabato
pomeriggio lasciandomi abbandonato su di una panchina del Parco del Popolo di
Reggio Emilia. In attesa del loro ritorno mi distraevo osservando come dei
bambini si divertivano da matti seduti sui vagoncini di un piccolo trenino che
percorreva l'interno del parco compiendo un giro, il guidatore del trenino, un
tipo anziano pareva divertirsi ancor più dei bimbi. Ecco, ora, a distanza di
anni, ripenso alla serenità d'animo di quelle ore come ad un punto di non
ritorno. Mai più nella mia esistenza avrei goduto la tranquilla serenità di
quelle poche ore così compiutamente. Si, avevo già percorso sentieri difficili
nella mia esistenza, ma non avevano scalfito significativamente quella pace
interiore propria di coloro che per le ragioni più varie ne riescono a godere
anche a fronte di vicissitudini terribili. In quelle ore di quiete, ero conscio
della durezza esistenziale che gli anni futuri mi riservavano, non ero uno
sprovveduto al riguardo. In fabbrica avevo avuto modo di leggere il giudizio
datomi dalla direzione roba da rimanere esaltati per il resto della vita, senza
bisogno di sniffare coca e roba simile, si parlava di grinta, carattere,
personalità matura non impulsiva eccetera, con il dominio di sé seppi in
seguito anni dopo che quel tipo di note erano redatte quando volevano liberarsi
di qualcuno. Passava ogni tanto davanti a me qualche giovane madre con accanto
i propri bimbi, alcune, lanciavano uno sguardo verso di me, uno solo,
sfuggente, quanto bastava loro per sondarmi e spulciarmi tutto, ha! le donne,
il vizio di fare la selezione tra i maschi non lo perderanno mai, o forse,
anche in una situazione di quiete biologica, quale mi trovavo in quel momento,
continuavo ad emanare "Acido Capronico", per cui attiravo i loro
sguardi e la loro istintiva attenzione femminile.
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Un uomo venne a sedersi nella panchina dov'ero seduto, lo guardai un attimo
probabilmente proveniva dall' Etiopia o Eritrea, sua figlia giocava con una
palla ben presto altri bimbi si unirono a lei nel gioco. Non ricordo come
iniziammo a parlarci, aveva dei problemi con la moglie, ed in breve raccontò la
sua storia, esattamente parlò di come il passaggio o meglio il salto di qualità
effettuato traslocando dal suo tucul in Eritrea ad un moderno appartamento in
una città del mondo civilizzato non gli avesse risolto più di tanto le sue
difficoltà familiari, gli chiesi in cosa consistesse in pratica il nodo della
loro crisi coniugale, rispose avvilito, come la moglie brontolasse di continuo
con lui, forse per un atteggiamento assunto dal suo carattere che per veri e
propri problemi, gli consigliai di trovare qualche scusa e allontanarsi, ad
esempio ritornando in Eritrea per qualche tempo. Sorrise, riteneva buon
consiglio quanto gli avevo suggerito, concluse dichiarandomi come dopo tutto il
travaglio affrontato nell'emigrare qui da noi, solo le ossa n' avevano tratto
giovamento. Gli domandai se avesse avuto problemi d'inserimento, se si sentisse
straniero qui a Reggio Emilia, Rispose affermandomi che ci sente stranieri
quando vivi in uno stato ove vige un regime dittatoriale, per cui le
limitazioni alla tua libertà e le coercizioni cui sei sottoposto t'inducono
infine ad andartene perché ti senti estraneo a quell'ambiente, cioè straniero.
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Andatosene, meditai sul nuovo lavoro, di come approciarmi ad esso. Prendere
possesso delle nuove mansioni, elaborarle, svilupparle per creare nuovi ed
efficaci supporti alla produzione primaria, il tutto al fine di migliorare
l'economia aziendale ponendo le basi per un ulteriore innalzamento della
qualità aziendale. Questi erano i miei nuovi compiti, ad essi dovevo dedicare
le mie energie, ciò doveva divenire la mia nuova fede, la mia verità!
Zarathustra insegna. Allineandomi a queste direttive aziendali, ponevo le basi
per una crescita professionale con conseguente miglioramento retributivo, i
corollari conseguenti non erano da poco, autonomia gestionale, responsabilità
coinvolgente, sì! ma senza l'ansietà nevrotica del bottegaio. Questo destino
scritto per il prossimo futuro, soddisfaceva i miei bisogni, i miei istinti,
per cui mi sentivo fortemente motivato. La possibilità offertami di realizzarmi
in un' attività aziendale fortemente innovativa procurava in me stimoli nuovi.
Certo dovevo tener conto di poter perdere la sfida, non ritenevo tutto questo
motivo sufficente per delineare un fallimento esistenziale, in quanto oramai la
chance era nelle mie mani, e per il mio carattere sentivo proprio il motto di
De Coubertin "l'importante è gareggiare"più che vincere; nella vita
si vince sempre un po', capita qualche sconfitta, non avere neppure una chance,
questo è deprimente nel vero significato della parola.
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GIOVINEZZA !...GIOVINEZZA
!
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Ritornai negli anni successivi in quel parco nella speranza di rivivere la
quiete di quel giorno, invano. Comunque come disse l'eritreo con cui scambiai
due parole quel giorno: almeno le ossa le feci riposare. Soprattutto,
l'aspettativa di una normalità esistenziale è stata sconvolta, di ciò, mi
angustio. Essere il testimone, di una vicenda incredibile, non denunciandola
alle autorità giudiziarie, appena venutone a conoscenza non riesco ancora oggi
a capirne completamente le ragioni, dico questo in quanto ho il sospetto di
essere stato all'epoca dei fatti, che in seguito descriverò, condizionato
mentalmente, in pratica, determinate azioni, idee che oggi mi vengono in mente
normalmente in quanto immediate, logiche, allora non le pensavo, e trovo tutto
questo singolare. E per verità storica negl'anni settanta e ottanta in Italia
molte questioni governative mancavano di chiarezza. Vicende politiche sempre
più misteriose e intricate erano pane quotidiano, per cui non era opportuno
dato il clima politico di quel periodo denunciare una vicenda del genere.
Speravo invero che qualcosa trapelasse tramite i "media", ma ciò
ancora non è avvenuto. Farmi i fatti miei senza arrivare ad atteggiamenti
omertosi sono nella mia natura, per carattere faccio parte di quella schiera di
persone le quali: se vedono una madonnina lacrimare sangue, oppure sono testimoni
di una duplicazione di pani e pesci, non vanno a raccontarlo in giro, tengono
la cosa per sé. Oggi molte cose sono cambiate, e ripensando ad una promessa
fatta, mi sono deciso a riportare sotto forma di racconto romanzato, ciò di cui
sono stato mio malgrado testimone. Altrimenti il tutto farebbe la fine del
dramma vissuto dalla rondinella di tanti anni fa, svanirebbe nel gran calderone
di quella parte della storia umana dove tutto è vissuto e nulla rimane come
testimonianza.
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IL NIDO DEGLI SPOSINI |
Eravamo infine arrivati, entrammo nella nostra nuova casa, la ditta di
traslochi aveva fatto proprio un buon lavoro, l'appartamento era arredato e
pulito alla perfezione. Dalla finestra godevo per la prima volta lo spettacolo
delle alpi innevate, formavano una grandiosa cornice di montagne, uno scenario
stupendo. Marina uscì subito per comprare qualcosa da mangiare, nello stesso
tempo continuavo ad ammirare il panorama delle alpi e della campagna
circostante. Nonostante la presenza di un tessuto industriale rilevante da
ritenersi senz'altro tra i più densi del pianeta la natura faceva sentire la
sua presenza come fattore primario e supremo del Piemonte. finito di cenare
andammo sul balcone per goderci la quiete che il calar del sole offriva in quel
nostro primo giorno nella nuova casa, stavamo in silenzio uno di fronte
all'altro, forse pensierosi riguardo al passo compiuto, così incisivo riguardo
alla nostra vita in comune. Marina volse la testa verso il panorama alpino, e
prese a parlarmi con voce bassa, come spenta:
"Dove cazzo mi hai portato",
"In Piemonte",
"Che posto di merda, non conosco nessuno",
"Ci ambienteremo vedrai",
"Parla per te",
"Si tratta di un sacrificio per un paio d'anni, dopo ritorneremo",
"Mi sta bene, questo succede a chi sposa un morto di fame come te".
Mi guardava alla sua maniera, arricciando il naso, Marina a dispetto del suo frasario aveva nel viso un espressione molto serena, dolce. Continuò a parlare: "Che scema, farmi trascinare su questo pianeta sconosciuto, speriamo solo che questo mio bambinello, cresca in un ambiente sano, quando nascerà mia madre verrà qui ad aiutarmi, gli dirò di essere particolarmente perfida con te".
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Una linguaccia concluse il suo discorso, stavo pagando lo scotto del progresso,
pazienza. "E dove ci sia soprattutto lavoro, lavoro a volontà",
conclusi Io. "Si intanto noi iniziamo proprio nel modo più difficile,…sai
al negozio mi hanno salutato non con il solito buongiorno ma dicendomi
"Madamin", gentile come espressione, nevvero ". Distratto
risposi "Eh! come!", mi guardò, anzi mi gelò con poche parole:
"Mi piace il tuo modo d'ascoltare quando ti parlo, sei tutto preso dalle
mie parole; tutte le linee del tuo volto esprimono i sentimenti di cui rimane
impregnata la tua anima, il tuo pathos traspare tutto dal tuo viso angelico
pallido, esangue, innocente". La mattina successiva, domenica.... mi
svegliai tutto sudato, guardai la sveglia erano le otto del nove maggio, avevo
l'impressione di essere febbricitante, la luce del giorno filtrava spessa dalle
persiane, guardai il letto, cose dell'altro mondo, il letto era bianco, le
lenzuola bianche come pure la coperta; mi guardai addosso indossavo un pigiama
di seta bianco, immaginai per un momento di essere in ospedale, mi riebbi subito,
ero solo sotto la tutela casalinga di Marina, tutto in casa era stato scelto da
lei, Io potevo solo assentire con il capo più o meno vigorosamente a secondo
del suo compiacimento nella scelta. Ancora mentalmente confuso da quel
risveglio, avvertii fugacemente un viso avvicinarsi al mio era Marina, la
baciai, le parlai: "Marina apri le imposte voglio vedere il sole",
appena aperte lanciai uno sguardo errante al cielo in cerca del sole, lo vidi,
lasciai la sua luce accecare i miei occhi, ebbi l'impressione vaga e fugace di
aver già vissuto quell'identica scena, frugai nella memoria invano, una frase
mi scappò dalla bocca: "sempre meglio! sempre in alto", mi
riaddormentai, degli schiaffi mi risvegliarono detti un'occhiata alla sveglia,
erano le tre del pomeriggio, Marina mi stava schiaffeggiando, "Svegliati
bel gurgumellino mio, basta dormire".
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L'AZIENDA |
Venne Il lunedì della settimana successiva al nostro arrivo era il giorno
concordato per presentarmi in azienda, prima di uscire mi avvicinai a Marina
dormiva beatamente e innocentemente, le detti un bacio sulla guancia, lei
aperti gli occhi esclamò:
"già di ritorno",
"Veramente devo ancora uscire, volevo salutarti",
"Mi hai svegliato per questo",
"Ti amo Marina",
"Beh! l'amore dimostralo lasciandomi dormire in pace".
"Grimilda da giovane", pensai tra me, per esprimere questo pensiero accortamente mi girai, conoscendo la sua capacità forse telepatica, di leggermi nel pensiero. Lei, voltandosi dall'altra parte del letto riprese il sonno del mattino, il più gustoso, fra tutti i sonni, non quello serale, troppo fisiologico, quindi raramente sereno, con tutti i geni della preoccupazioni giornaliere, e della stanchezza, che assediano la mente, portandoti ad un sonno non cosciente, non goduto. Uscii da casa l'aria fredda mi fece scivolare velocemente in macchina, misi il riscaldamento al massimo e partii verso la mia nuova destinazione. Arrivato, guardai il palazzo, pareva alquanto vecchiotto, alla reception mi presentai, fui accompagnato sino all'ufficio del direttore, questi mi venne incontro felicitandosi per il matrimonio ed il nuovo incarico, ribattei: "Questo palazzo Le Curbesier non l'ha mai conosciuto vero?", rise, rispose affermando che presto saremmo stati trasferiti in un nuovo complesso. "Saremmo...!" ero io solo, capo ufficio, senza ufficio, si c'era da definire tutta una serie di attività per un gruppo di collaboratori
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che mi avrebbero affiancato nel lavoro. Dopo la riunione di staff della
direzione ove fui presentato feci un po' di conoscenza spicciola in giro per
gli uffici, erano quasi tutti molto giovani, con uno spirito oramai lontano da
quello dei "veci" della fabbrica, normale svecchiamento pensai,
lasciano qualche vecchio barbagianni come cimelio, chiuso ben bene in qualche
ufficio e rinnovano le fila. L'iniziazione vera e propria l'ebbi verso le dieci
alla "Break Room" dove si andava a prendere il "gran caffè"
così era chiamato ciò che usciva dalle macchinette automatiche. Anche a me
fecero notare come era particolare l'eco della voce che proveniva dalla
finestra della stanza quando la si lasciava aperta. Ci furono altre
presentazioni, i miei colleghi tutti impiegati giovani avevano un'espressione
lieta e soddisfatta, si sentivano compiaciuti della loro nuova condizione,
notai che quando per qualche ragione si trovavano vicino alla finestra e di
sotto passavano degli operai, qualcuno corrucciava appena lo sguardo, oppure
voltava di scatto la testa allontanandosi dalla finestra.
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Ciascuno raccontava come era capitato nel nuovo settore. Alcuni erano stati
assunti dopo il periodo di "Stage Aziendale", altri appartenevano
alla schiera dei "promosso e tolto dalle balle", per altri ancora si
era trattato di un normale trasferimento d'ufficio, la soddisfazione di tutti
proveniva dal fatto che l'attività da svolgere era ad alto contenuto
tecnologico, premessa necessaria per ricevere una busta paga ad alto contenuto
monetario.
Insomma in quel vecchio palazzo una nuova cittadella si andava formando, si trattava di un normale avvicendamento generazionale nella vita aziendale, senza passaggi né di consegne né d'esperienze, tutto era nuovo, tutto si apprendeva mediante appositi corsi aziendali, nulla di ciò che rappresentava il passato aziendale veniva a conoscenza delle nuove leve, se non quanto era utile per rappresentare il "Nuovo". Per alcuni, questa nuova situazione esistenziale, giocava strani scherzi mentali, specie riguardo il personale anziano di qualsiasi ordine o grado, trovavano normale considerarli come degli "Zombi", "Alieni". I dirigenti parlavano di una nuova immagine, una nuova veste che coinvolgeva tutta l'azienda, modernizzandola, colmando un "Gap ambientale", nei confronti della concorrenza, e creando le premesse per un' evoluzione tecnica tale da porre l'azienda all'avanguardia nel suo settore industriale.
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L'INCONTRO |
Il coffee break era appena iniziato, la saletta si stava riempiendo di persone,
quel giorno "ricordo...un lunedì", l'attenzione di qualcuno si
concentrò verso una finestra la quale dava sul tetto di un capannone adiacente
al fabbricato ove ci trovavamo, questo qualcuno indicò qualcosa ad un suo
collega, tutti e due scoppiarono in una risata, in breve l'attenzione
degl'altri si concentrò verso la finestra e tutti ridevano.
Guardai, e risi anch'io, la scena era molto amena, e seppi in seguito, non nuova, in quanto specie nella bella stagione si vedeva di tanto in tanto qualche operaio che salito sul tetto, consumava seduto su di esso il contenuto del proprio baracchino.
Costui che tanta ilarità aveva suscitato in tutti noi, teneva vicino a se un bottiglione da due litri, dico due!, con circa cinque dita di vino dentro, il nostro collega si domandava, se il vino mancante, circa un litro e mezzo fosse stato "già" consumato nel corso della mattinata, oppure se quanto rimasto, fosse il rimanente della cena del giorno precedente, un impiegato chiuse la finestra, affermava ridendo come il pericolo dei miasmi emanati da quell'avvinazzato una volta giunti nella saletta potessero intossicarci tutti con conseguente ricovero nella camera iperbarica. Il tipo in quanto a baffi era proprio ben messo, per cui alcune discussioni si rivolsero verso quei "mostass" si convenne che da lì dopo un'accurata strizzata almeno un litro ne sarebbe certamente uscito.
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Nei giorni seguenti costui divenne a sua insaputa l'oggetto delle conversazioni
durante il "coffee break", i commenti andavano spesso verso
insinuazioni pesanti riguardo la salute mentale e l'estrazione sociale di
costui tipo: "cioccolataio", "operaiaccio",
"cooperativa alcolisti". E come spesso avviene, qualcuno era
informato più dei colleghi sul tizio, addirittura ora si conosceva il suo nome:
"Eugenio", gli mancava poco per andare in pensione, non era sposato,
e "dulcis in fundo" nell'ambiente era considerato un pochino tocco,
per via della sua credenza negli spiriti, addirittura in fabbrica girava la
voce che organizzasse sedute spiritiche, e la sua fama di medium era nota in
certi ambienti della città, tipo: salotti bene esclusivi. Qualcuno allora disse
di comprendere come costui si procurasse tutto quel Barbera, non comprandolo in
Osteria, ma evocandolo tramite le sedute spiritiche, venne spontanea la domanda:
da dove ?, ma dalle vendemmie del passato. la risposta non parve convincente,
quel vino, qualcuno obiettò, fu consumato tutto senz'altro, per concludere si
paventò una specie di indebita sottrazione attraverso lo spazio temporale di
damigiane di Barbera da cantine del passato, questo in conclusione spiegava
l'interesse del tipo per le sedute spiritiche. Si era alla fine del coffee
break, la break room stava man mano sfollandosi, quando un impiegato con
espressione seria si chiese se un atto simile poteva nella fattispecie
costituire reato, risposi dichiarandomi Ingegnere, quindi incompetente riguardo
l'aspetto legale di tali comportamenti. Tra l'altro si venne a conoscenza della
sua fama di gran forzuto, i sorveglianti del fabbricato raccontavano di come
alcuni anni addietro con una sola mano a braccio teso fosse stato capace di
sollevare la scocca di una "seicento".
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Dopo qualche giorno il personaggio sparì nel dimenticatoio. Di lì a qualche
settimana tutti gli uffici del palazzo, escluso il mio, furono trasferiti,
rimasi solo nel palazzo e solo durante il "coffee break", la cosa mi
lasciava indifferente, anzi, quando si lavora in una situazione "team
off" essere soli aiuta la concentrazione nel lavoro. Aspettavo anche con
maggiore trepidazione il ritorno a casa dove Marina m'attendeva e con il suo
bel pancione aspettava il nostro futuro bambino.
Una mattina gustandomi il caffè della distributrice automatica volsi lo sguardo verso la finestra per osservare l'individuo oggetto dei commenti nelle settimane passate, per poco non mi andò di traverso il caffè, egli era vicino alla finestra e rivolgendosi verso di me con un sorriso smagliante esclamò: "Buongiorno Ingegnere", risposi "Buongiorno". "Vedo che è rimasto solo nel palazzo", allargai le braccia e imbarazzato guardai l'orologio, tipico segnale per comunicare un "taglia corto" lui non percepì il segnale e continuò: "Anch'io Ingegnere sono rimasto solo, qua fino all'anno scorso eravamo in tre che nelle belle giornate passavamo la pausa mensa quassù sa per stare un poco tranquilli, ora loro sono andati in pensione, e allora mangio da solo". Prima di lasciarci mi presentai e lo salutai. In questo primo incontro con Eugenio avvertii del disagio, ripensavo rammaricato alle varie considerazioni non tutte amichevoli di cui era stato oggetto, anche da parte mia. Nei giorni successivi non attaccò bottone, non era di quei tipi che dopo due parole ti mollano la storia della loro vita, delle loro malattie e delle loro disgrazie, stava tranquillamente seduto a svuotarsi il contenuto del suo baracchino.
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CI
RIFLETTE...LUI..!? |
Riflettei sul mio atteggiamento di distanza verso quel tipo, e come avevo
sentito durante un corso sulla comunicazione interpersonale, dovevo superare il
muro che ognuno di noi pone di fronte a colui che ritiene sia diverso, inferiore,
o non appartenente al suo gruppo, d'altronde in quel periodo eravamo ambedue
soli ed isolati in quell'angolo dell'azienda, due parole durante il
"coffee break" le potevo scambiare con lui, sempre come affermavano
in uno dei tanti corsi aziendali non avevo necessità di "marcare il
territorio" nei suoi confronti. Non dovevo lasciarmi prendere dal
"raptus" di isolare e deridere i tipi strani, ritenuti spesso a torto
persone mentalmente disturbate, personalmente preferivo definirli con il
termine "outgroup". D'altronde in quel momento era l'unica persona
con cui potevo scambiare due parole, per cui m'impegnai di stabilire un
rapporto con costui, avrei fatto del bene ad entrambi. Parlai di lui con mia
moglie la quale osservò che per chiamarsi Eugenio sua madre doveva essere
un'ammiratrice di casa Savoia. Nei modi era educato e cortese, caratteristica
questa diffusa tra la gente Piemontese, hanno tutti un'aria un po' nobile,
distante, così...., senza boria o alterigia.
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Iniziammo a salutarci e scambiare due parole durante il coffee break, a volte
parlava del tempo o del suo "Torino" su quest'ultimo argomento
s'infiammava un pochino. Un giorno per celia gli dissi: "Eugenio, ma qui
sui tetti non c'è per caso qualche fantasma ?", la faccia gli cambiò di
colore, si riprese e guardandomi sorridendo rispose: "Ingegnere vi hanno
parlato di me neh!", sorrisi anch'io, proseguì "Ingegnere non so se
sono fantasmi, certo che di quassù si sente tutto quello che dicono lì sotto,
come fossero quassù, mi sono sempre domandato il perché di questo fenomeno neh…".
Aveva ragione, era stato il primo argomento del mio primo coffee break nel
palazzo, c'era un eco particolare in quell'angolo dell'edificio, gli chiesi:
"che dicono Eugenio ?", "Ingegnere lo so laggiù mi considerano
un poco tocco, per questo neh…", Cercai nel dialogo il modo d'ingannarlo
al fine di comprendere meglio il suo punto di vista sull'esistenza o meno dei
fantasmi. "Io Eugenio non ne ho mai visto uno, anche se ho conosciuto
persone che dicono di averli visti", stette un attimo in silenzio poi
riprese a parlare: "Ingegnere per persone come voi... gente tecnologica è
estremamente difficile credere, io per fantasmi intendo quelli che sono dentro
di noi, qualcuno li chiama complessi di colpa, altri rimorso, oppure
insoddisfazione o anche depressione nervosa","Sono d'accordo anch'io
su questa collocazione dell' attributo fantasma","Ecco Ingegnere, con
il passare degli anni questi
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fantasmi acquistano vigoria e consistenza, per cui la nostra visione della
realtà si distorce, e si perde via via che il tempo passa il senso della
realtà, ci si chiude in se stessi, divenendo prigionieri mentre i nostri
carcerieri, parlo dei fantasmi ci ballano intorno","Sei proprio un
filosofo","Lei penserà che per essere un Piemontese sono troppo
loquace", sorrisi "Perché pensi questo" stette un momento in
silenzio e continuò: "Ingegnere, nel dopoguerra quando comandava il
professore, neh quello si sapeva comandare, aveva il carisma del capo, qui era
pieno di operai, ora con i nuovi macchinari sono spariti tutti neh….".
Chinò la testa, e disse "mi pare ancora di sentirli parlare". Pensai:
"il matto è partito con il turbo stamani". "Hai nostalgia di
quei tempi Eugenio ?" "No dottore, non rimpiango niente, e non ho
nostalgia del passato o almeno non ritorno su con la testa. Nei primi tempi ero
convinto che il nostro lavoro producesse anche una ricchezza sociale
utilizzabile dal governo per modellare una nuova società secondo gl'istinti di
vita.... Invece ci ritroviamo tra le mani degli oggetti inutili, anche troppi,
senza sentirci liberi dentro". "Eugenio, allora il lavoro di un uomo
contava qualcosa, ora siamo solo numeri". "numeri piccini"
rispose Eugenio, detto questo si alzò, era proprio un gigante, con una pancia
anch'essa gigantesca. "Dottore, Voi siete un vincente, un giorno
diventerete direttore, non finirete come me qui sul tetto a scolare Barbera a
go go neh".
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Colsi l'occasione per sciogliere l'interrogativo scherzosamente posto dai miei
colleghi durante il "coffee break". "Eugenio, hai bevuto tutto
quel vino da stamattina ?". "No ingegnere il boccione sa, l'inizio a
cena, poi lascio quel tanto per mandar giù il baracchino a pranzo".
Pensai: l'enigma della sfinge era rivelato, era confermato il fatto di essere
un forte bevitore, anche se per via della sua stazza fisica, poteva assorbire
tutto quell'alcool senza danni eccessivi. "Eh… senti dove ti rifornisci ?
devo riconoscere che è proprio buono", "Neh…. Ingegnere il cercatore
di funghi non vi rivelerà mai dove coglie i suoi funghi, così è per la cantina
dove mi rifornisco, sa la voce si sparge, la cantina invero è piccinina, se ci
tenete Ingegnere posso portarvene una". "Di quelle truccate Eugenio ?
con due o tre litri in più di capacità", "No Ingegnere ora anche in
quei posti si sono modernizzati". Riguardo alle sue vicende famigliari,
seppi in fabbrica d'alcune sue amare vicissitudini, la moglie e una figlia
erano morte in un incidente stradale, occorso anni addietro, Rimasto vedovo non
si era risposato e viveva solo. Queste circostanze confermavano una mia antica
convinzione, che dietro certi atteggiamenti anticonformisti, o meglio
singolari, o meglio ancora, il non essere perfettamente centrati, c'è di solito
una sofferenza passata, o attuale. Ero proprio pentito di aver partecipato a
quel coro di dileggi vari nei suoi confronti.
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Il riferimento ai cercatori di funghi, mi aveva fatto ripensare ad un vicino di
casa che in certe domeniche d'autunno ostentando un' espressione di distacco
passava avanti alla mia finestra pedalando in bicicletta e trasportando sul manubrio
una cassetta di legno piena di Mazze di Tamburo, Porcini, e chiodini. Conscio
che qualcuno di sicuro guardando quei trofei agresti avrebbe schiumato
d'invidia e rabbia. Si era proprio il mio caso, perché dopo ore d'esplorazione
ritornavo a casa con mezzo fazzoletto di chiodini marciti dentro una busta di
plastica, mischiata con delle foglie per fare massa. Avevo digerito male quello
smacco, non c'era, in effetti, ragione di prendersela, appartenevo alla gente
di città spesso a digiuno dei tanti trucchi della vita di campagna. Riflettei a
lungo come porre rimedio a questa mia carenza, e quando fu il periodo buono per
la raccolta dei funghi, una domenica mattina mi appostai dietro le imposte
chiuse della mia cucina, già vestito di tutto punto aspettando il suo
passaggio, intercettatolo lo pedinai a distanza per campi e per boschi senza
farmi scorgere come insegnatomi dal mio sergente durante la naja, sino a che
non scoprii dov'era il suo posto segreto ove raccoglieva tutti quei funghi.
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Passarono i mesi e le stagioni, ed infine il giorno della rivincita arrivò, fui
io dunque a passare avanti la sua casa in bici con la mia bella cassetta di
funghi posteggiata nel portapacchi anteriore, ostentando un'espressione d'aria
fritta. Certe vendette si consumano una volta sola, poi non c'è più gusto,
questa fu la ragione per cui non andai a rovistare nell'ambiente d'Eugenio per
scovare ove acquistava il Barbera. Lo lasciai consumare il contenuto del suo
baracchino e rientrai nel mio ufficio. Percorrevo il corridoio, nessun pensiero
attraversava la mia mente, ed intorno a me nulla attirava la mia attenzione.Con
il senno di poi viene il sospetto che questa particolare condizione psicologica
rappresenti l'anticamera della cosiddetta "premonizione", intesa sia
nel senso metafisico sia miracoloso. Non si può parlare di presentimento e
tantomeno di "presagio" poiché i relativi segni o sensazioni sono
inesistenti, non percepiti, insomma in parole povere si tratta del classico
"fulmine a ciel sereno", noto a tutti e purtroppo frequente nelle
disgrazie e rare nella fortuna. A volte capita di sentir dire "Me lo
sentivo" riferito come detto più alle sciagure che alla fortuna, il
sentire un evento come imminente, o meglio, questa visibilità d'avvenimenti
futuri, è mediatamente successiva all' anticamera psicologica descritta,
raramente si va oltre, quando accade, la mente è ancora vuota, uno
sbalordimento, un restare attoniti ci prende tutto e appena un attimo
successivo, la coscienza di ciò che sta per accadere diviene completamente
presente in noi. In questo caso tutto rimase in "anticamera".
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Mentre richiudevo la porta dietro di me un gran fracasso simile ad uno scoppio
m'investì da dietro, le carte sul tavolo volarono in aria, il vetro della
finestra si ruppe, pochi secondi per riprendermi, e corsi verso il punto di provenienza
del gran botto, arrivai alla saletta del "break coffee", i vetri
della finestra giacevano sul pavimento in frantumi. Guardai verso la tettoia,
Eugenio stava riverso sul tetto immobile, probabilmente in quel momento ero il
solo ad essere conscio della presenza di una persona sul tetto, scavalcai la
finestra, mi diressi con precauzione verso di lui. Nel frattempo da sotto
apparvero alcune persone, spiegai loro in breve ciò che vedevo, cioè un buco
abbastanza netto e largo quanto una persona,
ed accanto c'era Eugenio sempre inerme, mi chinai chiamandolo:
"Eugenio come ti senti ?", egli alzata un poco la testa mi guardò, i
suoi occhi con uno sguardo da pesce lesso ricordavano molto quelli di un pugile
appena finito al tappeto per un K.O. Comunque da un esame sommario pareva tutto
intero. Lo aiutai a rialzarsi, era confuso e agitato, mentre lo accompagnavo
verso la finestra si girò di scatto e indicando il palazzo che si trovava
sull'altro lato della tettoia esclamò: "I Quaderni, i Quaderni". Lo
feci sedere sul davanzale della finestra, tentai di tranquillizzarlo: "Non
vedo ferite, sembri a posto", vennero altre persone ad aiutarmi, lo
trasportammo dabbasso e caricato su di una macchina fu portato all' infermeria
della fabbrica. Informatomi sulle sue condizioni seppi che non si era fatto
nulla, solo un gran spavento. Lo squarcio, era stato causato da un blocco di
ghiaccio caduto dal cielo, probabilmente staccatosi da un aereo di linea, la
cosa finì addirittura sul giornale, per fortuna non furono fatti nomi.
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IL SOTTERRANEO |
Qualche giorno dopo mentre gustavo il mio caffè nel salottino del
"break-coffee", vidi attraverso la finestra Eugenio, stava seduto,
come il solito sul tetto, vicino a se l'immancabile bottiglione con dentro le
solite cinque dita di Barbera. Lo chiamai: "Eugenio, tutto bene?" mi
venne vicino, ci stringemmo la mano. "Iingegnere sono a posto ma che
spavento neh", "lo credo bene Eugenio" risposi, "Ingegnere
grazie per avermi aiutato neh", come per incanto da una mano tirò fuori
due bicchieri di carta, senza proferire parola lì riempì con del Barbera, me ne
offerse uno che presi per pura cortesia, gli risposi: "Niente Eugenio, non
facciamo parte tutti della stessa famiglia eh ? ci dobbiamo aiutare no",
ero tutto contento di rivederlo come se nulla fosse successo, gli dissi....
"Hai ritrovato poi i tuoi Quaderni ?", guardandomi sorpreso, bevve il
suo Barbera e rispose: "Ingegnere non sono miei i Quaderni", rimasi
interdetto, poi gli dissi: "Si, però li hai ritrovati ?", "Sono
la dentro ingegnere", con la testa indicò verso il basso del palazzo di
fronte.
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Pareva ancora confuso, "Eugenio cosa c'è là dentro ?", "Ci sono
delle scale che portano in un sotterraneo". Istintivamente portai il
bicchiere di carta alla bocca e mi scolai il Barbera, pensai tra me che non si
era completamente ripreso; intanto dall'inconscio mi salì alla mente la
soluzione al problema tecnico incontrato all'inizio della mattinata, salutai
Eugenio e tornai al lavoro. Il giorno dopo recandomi in ufficio ripensai alla
faccenda dei quaderni, sapevo come alcune persone con l'età perdessero la
memoria per i fatti recenti. In considerazione di ciò pensai di recarmi dentro
la palazzina per verificare se per caso Eugenio non avesse dimenticato lì
qualche suo oggetto personale di cui sembrava, in seguito allo spavento preso,
aver perso la memoria. Ora a tanti anni di distanza rimango dell'opinione che
senza quell'incidente Eugenio mai mi avrebbe narrato questa vicenda, tutto
sarebbe rimasto dentro di lui.
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VI PRESENTO GARGANTUA |
Il giorno successivo di buon mattino mentre percorrevo il marciapiede dentro
l'azienda per recarmi in ufficio, mi fermai ad osservare la palazzina
indicatami da Eugenio. Deviai verso di essa, dall'aspetto esterno pareva
abbandonata da tempo, la porta era chiusa, a poca distanza c'era una finestra
all'apparenza chiusa, ma con un po' di buona volontà l'aprii, entrai, costatai
subito uno stato d'abbandono evidente, sapevo che tutta la palazzina doveva
essere demolita, curiosai in giro, aprii alcune porte, una di esse dava su di
un pianerottolo da dove delle scale a chiocciola portavano verso il basso, su
di un lato della parete era scritto "rifugio antiaereo", incuriosito
dal luogo insolito, certamente molto antico, probabilmente rimasto inutilizzato
dall'epoca dell'ultimo conflitto mondiale, iniziai a percorrerle, discesi,
credo per almeno due piani sottoterra, tutto al lume di una torcia a stilo,
l'illuminazione elettrica non funzionava. Il silenzio era assoluto, eppure
riflettei, all'esterno lo stabilimento di rumore ne faceva, non provavo paure
infantili per il buio o altro, stavo solo attento dove mettevo i piedi, e a non
sporcarmi addosso. Finalmente arrivai davanti ad un altro pianerottolo, v'erano
alcune porte, vicine tra loro, ne aprii una, con la poca luce di cui disponevo
riuscii ad intravedere l'interno, si trattava di una stanza non piccola, il
soffitto era basso con la volta a botte, entrai per ispezionare meglio il
luogo, notai al centro un rialzo in pietra delle dimensioni di un lettino, vi
girai intorno, non c'era nient'altro nella stanza, solo una vecchia uscita
della posta pneumatica, in disuso da tempo.
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Ispezionai di nuovo il rialzo in pietra, notai una fessura, ampia da contenere
una mano, vi avvicinai la luce a stilo per osservare meglio, c'era qualcosa,
pareva un libro o un Quaderno, misi dentro la mano e l'afferrai, era proprio un
Quaderno, una leggera patina di polvere copriva la copertina, la tolsi con la
mano, si notava una scritta, lessi: "M.la 7047 fogli 42". Lo sfogliai
le pagine erano ingiallite e tutte vuote, eccetto per una timbratura, poco
leggibile con la mia lucina, riconobbi solo una scritta: "Turi". Rimisi
tutto a posto, mi girai per uscire dalla stanza e mi accorsi di aver calpestato
e probabilmente rotto qualcosa, mi chinai, raccolsi un paio d'occhiali o meglio
quel che ne rimaneva erano del tipo "pince-nez", roba da
antiquariato. Uscito, aprii la porta della stanza accanto, era completamente
vuota, la richiusi, pensai come i sotterranei siano spesso degli ambienti
singolari, non percepivo né umidità né senso di freddo. Rendendomi conto di
dove ero andato a finire, e vergognandomene alquanto decisi d'andar via da lì
al più presto. Messo il piede sul primo scalino, guardai in su, era tutto buio,
per un momento ebbi l'impressione di essere respinto, dal peso dell'oscurità
sovrastante, capii che si trattava solo di un suggestione momentanea, dovuta
probabilmente al fatto di aver visto troppi film di Dracula da ragazzo.
Risalendo le scale per uscire alla luce un improvviso affanno mi costrinse a
fermarmi, mi voltai, guardai verso il basso le scale perdentesi nel buio.
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L'intuizione venne improvvisa e inaspettata, "Finalmente" capii
cos'era stata quella stanza: una cella! Qualcuno v'era stato tenuto
prigioniero; ripresomi dall'inatteso due più due compiuto dal mio cervello uscii
alla luce. Passai il resto della mattinata a rimuginare sulla scoperta fatta,
occorreva svolgere delle ulteriori indagini e con discrezione, per il momento
l'intuizione della mattina l'avrei per il momento tenuta per me. Durante la
pausa caffè andai alla finestra e chiamai Eugenio, mentre s'avvicinava gli
dissi: "Sono stato nel sotterraneo", rifece quella espressione
abbastanza buffa tra stupore e paura, "Siete stato laggiù dottore,
dabbasso... veramente ?", tremava tutto, mi fece pena, ripresi a parlare:
"Sì Eugenio, ho trovato un Quaderno vecchio come il cucco, è roba tua
?". S'abbassò con la testa, roteò gli occhi su di me e senza rispondere
alla mia domanda disse: "Dottore, voi avete visto, voi ora sapete neh",
calcò molto le parole, parlava con il linguaggio in uso nel periodo fascista,
dandomi del Voi. "Cosa Eugenio ?", lo guardai negli occhi, mi ritornò
alla memoria com'era solito chiamarmi il mio professore di ginnastica:
"Platone" non per attitudine a studi filosofici ma per via delle mie
spalle, forse non era sufficente con Eugenio, comunque era anziano, ancora
spaventato, gli dissi: "Vuoi portarti i tuoi segreti nella tomba eh, parla
che cazzo sai ?".
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Per la prima volta da quando lo conoscevo lo guardai negli occhi intensamente,
avevo la convinzione che sapesse qualcosa ed evidentemente non era intenzionato
a parlarne, nel suo sguardo, nei suoi occhi si leggeva una selvatichezza
aggressiva, pronta alla violenza, che solo anni di disciplina di fabbrica
riuscivano a contenere.
Chinò la testa, stette qualche attimo in silenzio, e riprese a parlare con voce greve: "Ingegnere, vi dirò tutto quello che so. Sarete voi che avete studiato, comprendere se sono un picio con la mataria, oppure se ci sia, neh! Qualcosa di vero". Pronunziò quest'ultime parole nel suo solito modo, guardandomi roteando gli occhi. Si riferiva alla mia visita laggiù nel sotterraneo ed ai riscontri rilevati nell'ispezione della cella.
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LA
MADRE....SANTA DONNA |
Eugenio inizio a parlare ("cantare" nel gergo della mala), quel
giorno, e i giorni successivi, sempre durante il "coffee break", con
l'occasione ebbi modo di capire il significato di molte espressioni dialettali,
in quanto Eugenio ne faceva uso parlandomi, ed ogni volta lo dovevo
interrompere per farmi tradurre quanto aveva detto nel suo Torinese schietto e
orecchiabile. Ad ogni incontro prima d'iniziare a parlare mi porgeva un
bicchiere di carta versandoci dentro un po' del suo Barbera, "fa buon
sangue" diceva, frase nota fra gli avvinazzati, comunque in considerazione
del fatto che stava togliendosi un peso da dentro, e tenere per sé questa
vicissitudine l'angustiava sottoponendolo ad un angoscia esistenziale da cui
tentava di evadere per mezzo di quei boccioni di Barbera trangugiati con
cadenza giornaliera, accettavo di bere con lui quell'unico bicchiere.
Ascoltavo, per curiosità animale, e anche con intenti terapeutici, sfogarsi
risolleva il nostro animo dallo stress quotidiano. Per accortezza dopo ogni
colloquio, trascrivevo su di un'agenda per sommi capi la sua narrazione della
giornata. Ad ogni incontro riflettevo su quanto andava dicendomi, cercavo
incongruenze, palesi inesattezze, mi risaliva nella mente una frase che mia
madre era solita ripetere: "Per raccontar fandonie occorre avere la
memoria buona". Poteva essere stato lo stesso Eugenio ad organizzare
quella messa in scena giù nel rifugio, ma come giustificare l'architettura dei
locali.
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Altrimenti il nostro personaggio, chi se non lui era da considerare il regista
ideale di tutta la vicenda. Rimaneva il fatto, da me accertato tramite
l'ascolto delle testimonianze d’alcuni colleghi anziani, come quel lato della
palazzina ove ero penetrato, risultasse chiuso ed inutilizzato dai tempi del
"Prof". Conoscevo tramite i racconti d’Eugenio e il cuore della
città, venivo a conoscenza di un suo segreto cos'era in fondo il suo parlare se
non la rivelazione dello spirito della città. Ecco dunque, come giorno dopo giorno,
si rafforzava in me il convincimento sulla veridicità oggettiva di quanto
Eugenio andava raccontandomi. Rileggendo gli appunti presi dalla narrazione
d’Eugenio, ricostruii la cronologia essenziale dei fatti riguardanti la vita
del nostro "Attore", lo chiamerò "Bruno" per comodità.
Bruno proviene da quella che una volta era definita una famiglia della media
borghesia gente che godeva di una certa agiatezza e che faceva del censo un
segno di distinzione. Nel 1941 appena ventenne parte soldato, combatte sul
fronte Russo, partecipa all'assedio di Stalingrado, di ritorno dal fronte
rimane segregato in casa sino alla fine del conflitto, quindi riprende gli
studi universitari laureandosi in Ingegneria Civile presso il Politecnico di
Torino. Nel 1947 è assunto in Azienda lavorandovi ininterrottamente sino al
1979. Si sposa qualche mese dopo la morte della madre avvenuta nel 1952, ha due
figli, un maschio e una femmina, la moglie gli muore un paio d'anni prima di
andare in pensione. Nel 1992 conosce casualmente Eugenio e gli racconta la sua
storia, muore nello stesso anno. Infine, nel 1993 il sottoscritto viene a
conoscenza della vicenda. Ora siamo nel duemila e cerco di ricostruire e
mettere per iscritto il tutto.
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SCAMBI
D'OPINIONI TRA... AVINAZZATI |
La necessità di riflettere attentamente su alcuni aspetti tecnici del lavoro
che andavo sviluppando m'induceva talvolta a passeggiare nei corridoi, e con
una certa mestizia constatavo come tutto sapesse di vecchio, tutto allo sguardo
risultava vetusto, queste mura nei tempi trascorsi erano state testimoni di ben
altro andazzo, con personale impegnato nel lavoro, e un intenso viavai di
fattorini, segretarie, impiegati animavano queste stanze. Ora tutto questo era
finito o meglio, trasformato ed evoluto com'è normale che sia nella vita
aziendale, probabilmente il dramma si era svolto tra queste mura, ispezionavo
gli uffici completamente svuotati nella ingenua speranza d'individuare un
indizio utile come riscontro al racconto di Eugenio. Nella nostra concreta e
tangibile quotidianità nulla rimane del passato di noi gente comune, né
fantasmi né memorie scritte e neppure lapidi solo il vuoto o altre scene
riempiono questo tipo di storia. Lo sanno bene gli archeologi in quanto devono
faticare non poco nel far rinvenire alla luce non le piramidi ma i resti della
manovalanza che l'eressero, occorre setacciare chilometri di deserto per
trovare qualche avanzo. Questo era il nostro caso ! eppure le vicende
appartenevano ai nostri giorni, ma tutto era caduto nell'oblio.
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Sempre cercando giustificazioni un idea amena s'affacciò alla mente: in questo
ambiente dei giorni nostri altamente tecnologico, iper reale, frettoloso in cui
la concretezza del pensiero ed il conformismo comportamentale non permettevano
quei voli pindarici dei tempi andati, questa storia può essere la spiegazione
di come alcuni sentissero la necessità di uscire da quella sottile retta
centrale della nostra personalità, rappresentante la cosiddetta normalità. Il
racconto d’Eugenio terminò dopo una decina di giorni, chiese un parere a caldo:
"Eh caro mio", usai quest'espressione per fargli subito intendere il
mio scetticismo sulla vicenda, proseguii: "È difficile credere, si ho
visto il Quaderno, gli occhiali, devo riconoscere che il posto è proprio
strano, abbandonato da anni, quel rifugio simile ad una prigione sotterranea.
E’ noto a tutti oramai che in passato c'erano i cosiddetti reparti speciali,
dove erano dirottati: sindacalisti, comunisti, e gente da punire... ma di
camere di tortura non si è mai saputo niente ...., Eugenio i sorveglianti sanno
qualcosa ?", pronto nella risposta disse "Ingegnere quelli servono
per tenere a bada noi operaiacci, non i padroni". Sorrisi e continuai:
"Vedi certamente alcuni fatti hanno una loro intrinseca veridicità, è probabile
che quel sotterraneo sia stato adibito a luogo di tortura dato che lì hai detto
v'era un presidio dello esercito tedesco, altri fatti rientrano nella sfera
della fede, d'altronde come potevano i soldati del presidio ignorare quella
presenza senza esserne in qualche modo complici", "Dottore, anche Voi
avrete notato com’entrato nella cella il vostro comportamento sia
cambiato", "È esatto lo debbo
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Riconoscere, ma sai dopo essere sceso per circa otto metri nel sottosuolo per
mezzo di quella stramaledetta scala a chiocciola, a chiunque girerebbe un po'
la testa, per questo quel senso di blocco mentale penso sia normale.... e
quella persona da te conosciuta in quella Piola, l'hai conosciuta dopo che
Bruno ti aveva raccontato la sua vicenda, nevvero ?", Eugenio annui,
"Capisci in quale condizione mentale ti trovavi..., in quel contesto
scusami, sarebbe giustificabile per chiunque scambiare lucciole per
lanterne", lo guardai, sorrideva, rispose:
"Ingegnere siamo stati plagiati dalle parole di un morto, anch'io credo si possa far niente, è troppo incredibile, Il sospetto di essere rimasti coinvolti da una serie di fatti fenomenali solo apparentemente verosimili è forte, anzi fortissima. "Ma lei come fa a comprendere se si trova dalla parte della verità o da quella delle balle". "Non certo per mezzo d’idonei strumenti tecnici, ma soprattutto per una forte incredulità cui sono stato abituato fin da piccolo", "è così per tutti, limitiamoci ai fatti, qualcosa in quel sotterraneo è successo, forse montato ad arte come lei è propenso a credere, probabilmente un lavoro interrotto per qualche motivo che Bruno non mi ha rivelato, non abbiamo certezze".
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- "È pur vero che in passato e anche di recente siano stati rapiti
personaggi eccellenti. Il tutto con un seguito d’immediata pubblica notorietà,
qui invece ci troviamo di fronte ad una situazione diversa, ufficialmente non
sa nulla nessuno", - ...... - "Senti Eugenio ma la coperta militare
che fine ha fatto ?", - "È nella mia cantina, sa Ingegnere raccolgo
roba vecia da rivendere al sabato a quei pici, al Balin". Sorrisi,
pensando come viene fuori l'antiquariato, un'altro interrogativo mi venne alla
mente e glielo esposi: - "Eugenio ma questo Bruno che tipo era...
fisicamente intendo", - "Circa della vostra taglia Ingegnere, colpiva
l'espressione del suo viso, un viso rotondo con occhi come nei mongoli, il naso
schiacciato come usano i pugili".
- "Della sua famiglia sai qualcosa ?", - "Lui non ha detto più di quello che ho raccontato a lei dottore, ma qualche intuizione, qualche diceria se vuole posso narrargliela" - "Dimmi, dimmi", - "Dormivano in camere separate, sa come usavano i nobili di una volta", - "Non è insolito in ambienti di un certo censo", - "Non facevano vita di società, sempre molto formali, insomma Ingegnere si vedeva lontano un miglio che il loro era un matrimonio...diciamo non riuscito male, questo no, ma in casa qualcuno ha lottato per tenerlo insieme, non lui certamente".
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- "Era un violento ?",
- "No Ingegnere, lui stesso mi ha detto tra le lacrime...vere lacrime di
Caimano Ingegnere, di come, mai avesse alzato una mano sulla moglie o sui
figli".
- "Sai Eugenio non capisco dove i loro rapporti, la loro quotidiana vita
familiare avesse il punto di crisi, cioè cos'era che non quadrava tra
loro",
- "Mancava l'affetto, in quella casa neppure le formiche riuscivano a
mettere
su casa. Vede Ingegnere, questa è... penso mi neh la causa vera della morte
di sua moglie".
- "E della fuga dei figli", conclusi io.
- "Si dedicava pochissimo alla sua famiglia, nel suo ufficio in fabbrica
c'era un salottino, spesso vi ci dormiva, altrimenti era in giro per il
mondo".
- "Eh Eugenio quando tornava a casa cosa gli dicevano i figli.... lo
riconoscevano ?",
- "Ingegnere domandavano alla madre chi fosse quel signore che stava
in stanza da letto, neh… ".
Sorridemmo sarcasticamente
nel recitare sotto forma di dialogo, dei modi di dire diffusi in fabbrica.
Volevo concludere, nei giorni passati avevo avuto modo di effettuare una
piccola ricerca sul personaggio al centro del racconto d’Eugenio, era realmente
esistito e defunto da circa due anni. Conosciuto nell'ambiente di lavoro come
persona estremamente capace, di notevole intelligenza, dotato di una
professionalità cattedratica, di carattere riservato e poco confidente. I
sorveglianti avevano forgiato per lui un nomignolo "Automa", per via
del suo comportamento, irreprensibile per carità, ma in tanti anni di fabbrica
nessuno ricordava di averlo visto,
ridere, incazzarsi, o parlare del tempo. Un sorvegliante parlò di
"personalità metallica" adeguata al tipo di lavoro svolto
dall'azienda.
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Andai a vedere il palazzo ove aveva abitato da vivo, mi presentai al portiere
Un mandarin arrivato in città ancora cittino, parlava uno slang particolare ove
il dialetto Torinese si mischiava con il calabrese sviluppando ora l'uno ora
l'altro a seconda delle circostanze, occorreva stare molto concentrati per
intenderlo. Spiegandogli che ero stato incaricato dall'azienda presso cui aveva
lavorato di preparare una biografia sulla vita del nostro del personaggio. Il
portiere si dimostrò disponibile a parlarne e senza reticenze iniziò
raccontandomi come secondo lui specie negli ultimi tempi fosse diventato
"tocco" alquanto, combinava mille stramberie, e tutto s'aggiustava
usando come lubrificante i quattrini... gli ne uscivano dalle tasche a chili.
Mi raccontò di come, considerato un gran signore dell'eleganza, iniziasse a
trascurarsi nella persona e nel vestire, girava per le strade rovistando nei
cestini in cerca di qualcosa di buono da raccogliere, insomma concluse il
portiere ridacchiando, aveva preso piacere nel fare il barbun. Il portiere
continuò vantandosi di come lo aveva convinto ad assumere un infermiere a tempo
pieno, per cui questi si preoccupava sia di riportarlo a casa che di evitargli
comportamenti troppo strani, lo aveva anche convinto ad assumere una donna ad
ore per tenere in ordine l'appartamento, mi disse: "Pensi lei Ingegnere se
è giusto per una persona sola vivere in quell'appartamento di quattro cento
metri quadri e con tripli servizi, mentre ci sono famiglie tanto bisognose".
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Gli risposi che forse una parte dell'appartamento era disabitata,
"No" rispose con un certo astio alzando un braccio ed eseguendo una
mezza piroetta, "Anzi c'era anche la sala del trono lassù", con gli
occhi indicò un punto in alto, alzai lo sguardo, si poteva vedere un attico
traboccante di piante e sicuramente spazioso. Il portiere continuava a
divertirsi nel rievocare le vicende umane del nostro personaggio, atteggiamento
senz'altro disdicevole ma molto utile per me in quanto venivo a conoscenza di
fatti interessanti. Continuò a parlare raccontandomi di come invaghitosi
perdutamente della sua donna di servizio le regalasse collane e anelli d'oro,
sempre divertito descrisse come tentasse di nascondere a lui questo suo
capriccio. Domandai se effettivamente tra loro ci fosse stato della
"Passion", "No" rispose secco erano tutte sue fantasie.
Ebbi come l'impressione che volesse finalmente sfogarsi o meglio lagnarsi di
una qualche ingiustizia subita con il nostro personaggio. Si vantò di essere
riuscito a liberarla da quella profittatrice, e di averlo guidato verso una
vita normale. Compresi infine il perché di quell'astio che il ricordare gli
procurava quando prese a lamentarsi con me dell'ingratitudine dei due figli nei
suoi confronti, dopo tutto quello che aveva fatto per impedire all'ingegnere di
dilapidare il suo patrimonio, questi non gli avevano detto neanche grazie. Mi
venne lì per lì un dubbio circa questo suo altruismo tanto disinteressato, non
pareva il tipo adatto per la salvaguardia dei patrimoni altrui. "Che cosa
intende dire quando parla della sala del trono". Gli occhi lampeggiarono
un sogghigno gli si dipinse in faccia, "Eh Ingegnere in quell'appartamento
quando abitavano i Ferreri c'era una stanza adibita a libreria, la può vedere
sa, lei faccia un giro intorno all'edificio vedrà dalla parte opposta ove ci
troviamo noi un
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finestrone ampio, ecco quella era la stanza del trono, venga venga a vedere
anche lei", facemmo il giro dell'isolato, potei vedere quanto lui aveva
appena descritto. "D'accordo ma perché" insistei e lui "Su tutte
le pareti c'era una libreria alta sino al soffitto, in terra dalla parte del
finestrone il pavimento era rialzato circa trenta centimetri, sopra questo
rialzo si trovava una sedia sa di quelle antiche tutta intarsiata e decorata
ecco perché io la chiamo così quella stanza", "Probabilmente andava
là per leggere, erano tempi allora senza televisione capisce". Il portiere
riprese a ridacchiare e con gesti e sguardi mi fece comprendere che lui in quei
casi passava il tempo più piacevolmente. Non volevo parlare direttamente
d’Eugenio, occorreva fare una domanda indiretta al riguardo perciò parlai di un
problema di solitudine, Dette la risposta che desideravo, iniziò a parlarmi
d’Eugenio, un operaio un tipo alquanto strano anche lui, andavano sempre via
insieme negli ultimi tempi dato che l'ingegnere non poteva muoversi per via
dell'aggressione subita, girava su di una sedia a rotelle, nel ricordare
quest'episodio il portiere prima sogghignò e poi iniziò a ridacchiare di gusto,
raccontò com’Eugenio fosse un credulone pronto ad ascoltare tutte le
scempiaggini che l'Ingegnere andava raccontandogli, erano diventati amici,
stavano bene a passeggiare dentro il Cottolengo concluse il portiere.
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Gli chiesi se i Ferreri tenevano la "Babia", il portiere dette parere
negativo ma erano gente riservata e molto. Della famiglia, mi rispose che non
sapeva molto, lui aveva iniziato il portierato, qualche mese dopo la morte
della moglie, comunque la loro vita in famiglia doveva essersi svolta tutta
nella normalità, in quanto non aveva mai sentito chiacchiere d’alcun genere sul
loro conto, la moglie per quel che aveva sentito dire era considerata una gran
dama nel quartiè capii che sulle "chiacchiere" mentiva, guardai
l'orologio era ora di levare le ancore, lo salutai ringraziandolo di cuore.
Stavo raggiungendo la macchina quando una signora molto anziana con in testa un
buffo cappellino ed il viso coperto da una velina, mi venne incontro tutta
sorridente per parlarmi. "Cerea neh, sa mi scusi, ho sentito che parlava
con il portiere del povero Ingegner Bruno", accennai un lieve inchino e le
risposi: "Lo conosceva signora?", "Oh si, un gentiluomo d’altri
tempi, tanto buono e gentile un vero galantuomo, finalmente qualcuno si ricorda
di lui, sa quando vado al cimitero a trovare il mio povero marito "son
mi" che prendo cura della sua tomba, i figli, un maschio e una femmina sa
non vivono in Italia per cui nessuno prende cura di lui". Osservavo commosso
l'anziana signora mentre parlava, pensavo tra me alla occasione capitatami,
occorreva senz'altro approfittarne, per cui mi misi subito all'opera
manifestandole il mio interesse per quanto poteva conoscere nella speranza di
sentire qualcosa di nuovo e interessante sul mio personaggio.
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- "Signora, cerco delle notizie sulla vita privata dell'Ingegnere,
purtroppo con scarsi risultati".
- "Conosceva poco la chiesa del quarttrè, e anche in quell'altra non è mai
entrato. La moglie era una mia cara amica sa, veniva qualche volta a trovarmi,
prendevamo il tè insieme". Quelle parole erano magiche per le mie
orecchie, mi guardai intorno e vidi poco lontano un Bar, invitai l'anziana
signora a continuare il colloquio in un ambiente più confortevole e
riservato", mi lanciò un'occhiata ammiccante e provocatoria che subii
rassegnato e accettò. Ci sedemmo in un tavolino nella saletta e ordinai due
tazze di cioccolato, gustatele, l'invitai a raccontarmi su ciò che sapeva dei
coniugi Ferreri. Lei tutta contenta dell'invito cominciò con il parlarmi della
moglie di Bruno, "Sa deve capire, noi donne abbiamo il nostro difetto,
quello di chiacchierare tanto, e lei veniva a volte a trovarmi, era di una
simpatia di una grazia unica ancora la rimpiango sa, ah il destino è stato
crudele con lei, saprà vero di cos'è morta?", accennai di si con il capo,
mi accorsi che nel discorrere tendeva molto a divagare ed allontanarsi dal
discorso che mi interessava, era quindi necessario di tanto in tanto
correggerla con domande mirate a riportarla in argomento, perciò le chiesi:
"Signora ma lei cosa sa della loro vita quotidiana", Mi guardò
socchiudendo un po' gli occhi, e senza guardarmi riprese a parlarmi "Ma
lei parlava a volte dei figli sa le solite cose: malattie, scuola, i soliti
problemi di tutti i giorni, del marito parlava poco, facevano vita molto
ritirata, le volte che li ho visti uscire insieme, sa si contano sulle punte di
una sola mano, io abito
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nel palazzo di fronte, perciò sono bene informata", pronunciò queste
ultime parole guardandomi come cercasse una mia qualche complicità per non so
che cosa poi, abbassai un attimo lo sguardo sul tavolino come per rimirare i
bei ricami della tovaglietta ove poggiavano le scodelline delle tazze, mi resi
conto di essere stato un superficiale e un ingenuo nel ritenere sufficente quell'invito
alla signora per conoscere vita morte e miracoli del mio Ingegnere, le
questioni andavano in realtà affrontate con un approccio professionale,
analitico, cosa in cui io non ero proprio preparato, e siccome il tempo
passava, pensai di passare ad un genere di domande essenziali quindi le chiesi:
"Signora secondo lei erano una coppia felice", sorrise ed annuendo
con la testa rispose "Oh si senz'altro erano molto uniti, lui era una
persona importante, gente di un certo censo, sa, non s'interessavano di
politica, lei come le ho detto era una donna molto simpatica e fine",
"Mi dica signora e i figli com'erano", "Ho ragazzi come tanti,
certo potevano godere di qualcosa in più, nei confronti di un figlio d'operaio,
andavano a scuola dai salesiani, d'estate andavano in vacanza in una delle loro
case al mare o ai monti, non hanno fatto il sessantotto anche se gli anni li
avevano, credo che il maschio viva all'estero, la femmina sa non la vedo da
anni ormai", "Allora lui ha vissuto in quella casa da solo prima di
morire", "Si, dalla morte della moglie, che disgrazia poverino, sa è
successo poco prima che andasse in
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pensione, d'allora è sempre vissuto in quella casa, usciva solo il pomeriggio
per portare a spasso la sua cagnetta, una barboncina tanto bella, e quando lo
hanno aggredito, le è noto il fatto vero? la barboncina non si è più
trovata","Che tempi signora non si è sicuri neanche in pieno
giorno", "No il fatto è accaduto di sera tardi","Mi diceva
il portiere che ultimamente non era molto in sé". La signora mi sorrise,
anzi si nascose la bocca per celare un piccolo riso che le saliva in gola.
"Si certi giorni era buffo, un giorno l'ho visto camminare tutto ben
vestito come sua abitudine del resto, con le scarpe da camera ai piedi"
Ero agli sgoccioli con la mia intervista, considerai una fortuna il non aver
intrapreso la carriera giornalistica, comunque feci un'ultima domanda alla
simpatica signora: "Secondo lei l'ingegnere era una persona felice",
"Come tutti noi direi, forse troppo serio questo si, ma sa con le sue
responsabilità chi non lo sarebbe stato, non si vivevano drammi in quella casa",
pronunciò quest'ultima frase osservandomi con gli occhi socchiusi, capii
benissimo cosa voleva dire, non avrebbe mancato di rispetto alla memoria
dell'ingegnere con delle chiacchiere da salotto, se c'era qualcosa di storto
nella storia di quella famiglia non era cosa che doveva interessarmi,
amareggiato da una constatazione d'incapacità nel sapere cavare di bocca
qualcosa di significativo dalla signora, la salutai facendole un accenno di
baciamano, che le fece certo piacere.
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Quanto avevo udito non supportava in alcun modo la credibilità del racconto
d’Eugenio. Potevo considerare fallito il tentativo intrapreso con lo scopo di
venire a conoscenza di particolari sulla sua vita privata. Conoscere i suoi
figli, capire come si era svolta la loro vita da piccoli, com’erano adesso?
felici, distrutti da un'infanzia traumatica o quant'altro, tutte curiosità che
oltre ad esulare dal mio campo di preparazione specifica non m'attirava molto
conoscere, quello di cui ero venuto a conoscenza era sufficente per il mio
stomaco. Per molti versi le vicende che andavo ricostruendo appartenevano al
genere "Timeless Story". Ad Eugenio non avevo detto nulla circa la
mia indagine, ritornai con la mente a lui per continuare con le mie
considerazioni. "Questo Bruno, penso avesse riguardo alle vicissitudini
vissute, in guerra, in famiglia, da piccolo, sviluppato in forma morbosa un
senso di colpa ossessivo e fobico, da come lo descrivi la sua personalità
doveva soffrire o meglio aver particolarmente sofferto nella prima parte della
sua vita di un inadeguato adattamento alla realtà, probabilmente con qualche
tendenza schizoide. È probabile dato il suo grado di responsabilità in azienda,
che sia stato proprio lui ad organizzare quelle celle, laggiù nel sotterraneo,
e con una denuncia anonima provocare un bel teatrino, come spesso avviene qui
da noi... in modo da potersi mondare e purificare dal suo senso di colpa".
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"Neh........ Ingegnere e i Quaderni",
"Eugenio possono essere un falso... parli di Quaderni, io ne ho visto uno
solo".
"L'altro si trovava in terra, l'ho aperto, alcune pagine erano scritte",
"ah non ho fatto caso, comunque le mie conclusioni non cambiano".
"Sa Ingegnere, condivido il suo scetticismo, ho vissuto la cosa da presso,
quindi ne sono rimasto maggiormente plagiato".
Sorrisi "Eh Eugenio, pensa se questa storia dovessi raccontarla ad un
altro,
per costui sarebbe ancora meno credibile".
Scherzando dissi: "Mettiti nei loro panni",
"Nei panni di chi Ingegnere ?".
"Di quelli che ci stanno qui di fronte a circa trenta centimetri",
"I lettori intende",
"Si Eugenio",
"Allora ingegnere il cerchio s'è chiuso".
"Esatto, ma non possiamo farci niente"
"Ingegnere, io ho fatto solo le elementari, invece una persona
istruita come voi, e nella vostra posizione, potrebbe ad esempio tirarne
fuori un romanzo".
"Si, come racconto non c'è male, questa storia copre un arco di circa
cinquant'anni di vita, il problema sta nel fatto che si tratta di una
parte del tutto, voglio dire nel farne un romanzo se si vuol rimanere
fedeli alla fonte, sarebbe per forza carente in molte sue parti a meno che
tramite illazioni venga completato laddove non sappiamo niente di niente".
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"Ingegnere ho raccolto una confessione, le vicende riguardano solo ciò che
è attinente alla confessione stessa", "Esatto Eugenio, in questo caso
si descriverebbe un mondo testuale ove si rende possibile ciò che nella realtà
è impossibile. è da considerare che oggi lo scrittore vecchia maniera è quasi
scomparso, devi appartenere ad un certo giro, non so ad esempio essere un
giornalista, un politico, un attore e quant'altro capisci, insomma se sei uno
scrittore "arrivato" il quale godendo di una solida posizione sociale
trova in ogni sua attività una risposta nel meccanismo istituzionale e
industriale della società, allora una storia del genere la puoi pubblicare, lo
dico in quanto è successo, anche recentemente". Continuai il discorso per
convincerlo della concretezza del mio giudizio. "Uno scrittore è di
successo se è in possesso di quelle qualità le quali partendo dalla sua
particolare sensibilità lo pongono rispetto ad un potenziale pubblico in una
situazione di recettibilità del racconto. Basta leggere i giornali, noterai
come certe penne siano padrone di tutte le furbizie del mestiere, per cui sono
capaci di descrivere in modo compiuto, nuovo, i nostri sentimenti, le nostre
passioni, i tempi nuovi, eccetera", il tempo di riprendere fiato e
conclusi la tirata con: "Eugenio, fatti furbo, io non sono un intellettuale,
come tu non sei un ignorantone senza cultura."
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Sorrise: "Si, capisco Ingegnere, negli anni passati ho frequentato dei corsi
serali sulla storia dei movimenti politici e sindacali, Oh! lì sa quei moderni
soloni spiegavano bene queste cose, la distinzione tra intellettuali e non
intellettuali, si riferisce alla immediata funzione sociale di certe categorie
professionali, oggigiorno tale distinzione tende a scomparire, oggigiorno
l'oratore puro, il letterato, il filosofo, anche l'artista sono superati da un
nuovo tipo di figura intellettuale, questi mescolato ben bene nella vita
pratica come costruttore, organizzatore, è leader di riferimento per una
determinata attività in atto in un certo istante, unendo oltre alla capacità
tecnico scientifica una concezione socio umanistica del lavoro, per cui la sua
figura di specialista si eleva ed assume funzione politico dirigenziale". "Eugenio...
tu prendi gli anabolizzanti nevvero ?". Rise dandosi una gran manata sul
ginocchio. "Eh dottore, se queste droghe cambiassero il carattere di fondo
di una persona diverrebbero medicine, chi non vorrebbe trasformarsi almeno una volta
nella vita assumendo un'altra personalità, anche per sfuggire ad un certo tipo
di noia che ci accompagna. Ma per realizzare ciò occorre un lavoro interiore
paziente, uno sforzo intenso, imparando a concentrarsi e a disciplinarsi in
modo da raggiungere una maggiore consapevolezza intellettuale, il che permette
veramente di effettuare in noi stessi un miglioramento, che permette infine di
avere maggiore considerazione e rispetto per gl'altri, il che permette una
migliore vita sociale, più giusta e coesa.
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"Eugenio, noi nella storia siamo due formichine, è per noi impossibile
cambiare o far cambiare il suo corso, coloro che in passato sono stati capaci di
tanto sono oggi citati nei libri di storia, ci pensi noi due, si, Io e Te, far
parte di una simile combriccola per una vicenda del genere, tu cosa hai fatto
da quando ti sono noti questi fatti". Eugenio chinò la testa, "nulla
Ingegnere, proprio nulla". "Ci penserò Eugenio", provavo
dispiacere nel deluderlo, volevo troncare la faccenda per la piega un pochino
spiacevole che stava prendendo. Per consolarlo gli dissi: "Eugenio, mi hai
dato uno spunto importante, un giorno forse se passi davanti a qualche libreria
vedrai in vetrina questo romanzo". Eugenio mi riservava ancora delle
sorprese, infatti alzatosi per andarsene, mi porse la mano dicendomi: "Dottore
domani io sono in pensione, qui non ci vedremo più neh". Beh pensai: Un
saluto gradito è quello del rompiballe che se ne va, cacciai dalla mente la
perfida considerazione. Risposi "Auguri Eugenio", lui trasse dalla
tasca della giacchetta un plico e porgendomelo disse: "Ingegnere, sono gli
appunti che ho preso quando come le dicevo Bruno mi ha raccontato le sue
vicissitudini, li tenga lei può farne sicuramente un uso proficuo cosa di cui
io non sono capace". Presi la busta sorpreso e anche imbarazzato, con un
"Cerea Ingegnere" mi salutò".
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C'è chi parte tra feste ed applausi di mille persone e chi parte in silenzio e
in solitudine, c'è chi muore nel sonno senza soffrire, e chi tra i dolori
atroci di un'agonia lunga anni. Eugenio concludeva una fase della sua vita con
quel semplice modo, passandomi un quaderno d'appunti, e allontanandosi con
passo lento e greve portando a tracolla la borsa con il suo baracchino e in una
mano il suo boccione di Barbera. Una persona che sforzandosi nel corso della
sua vita di allargare il proprio orizzonte, fatto di cultura, di relazioni, non
si troverà mai spiazzato senza sapere cosa fare. Ecco cosa apprendevo da
Eugenio, a non vivere nel chiuso della mia iper specializzazione, dove sarebbe
sicuramente cresciuta la tentazione all'isolamento schizoide, dovuta ad una
presunta incomprensione del mondo circostante nei miei confronti. Coltivando
altri interessi con uguale impegno correvo meno rischi di tracolli mentali
quando il mio bel castello di iper capacità fosse finito, per successivo
pensionamento o invecchiamento tecnologico.
Rientrai in ufficio oramai la giornata di lavoro era persa, mi ero troppo distratto presi la giacca e uscii anzitempo, mentre aprivo la portiera della macchina mi ritornò in mente "La sala del trono" che modo buffo di catalogare le cose, poteva esserci un fondo di verità, chissà quella stanza potrebbe rappresentare un luogo ove sfogare un bisogno estremo di affermazione, alcune persone hanno una necessità patologica di encomi,
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promozioni, riconoscimenti ufficiali, che il nostro protagonista non fosse uno
di questi, questo spiegherebbe il suo dannarsi non per il male commesso, perché
in questa storia non c'è traccia di rimorso, almeno in forma esplicita, ma il
dannarsi per essere stato dalla parte sbagliata per cui costretto a dover
rinunciare ai suoi propositi di conquistare il mondo come talvolta pensano
taluni giovanotti. Illazioni sempre illazioni non potevo fare altro, adesso ero
Io che costruivo un castello di carta sentivo la necessità di fare dei passi
indietro con la mente per mettere una parte dell'encefalo nel verso giusto.
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…. IL SOLONE
CONCLUDE.. |
Nel concludere questa prima parte volevo accennare in breve a quel che accadde
al luogo e ai personaggi narrati: Eugenio andò in pensione, non lo rividi più, e
non seppi più nulla di lui. La palazzina fu completamente demolita. Io cambiai:
lavoro, azienda e città. ciò secondo i nuovi orizzonti della psicanalisi
dovrebbe far bene sia al fisico che alla psiche. ...perché se fossi rimasto ?,
qualcuno di lor signori m'immagina per caso, in qualche stanza, con le pareti
imbottite, insonorizzata, e con indosso una camicia di forza, urlando a
squarciagola ?, in un sotterraneo del Cottolengo. Non ricordo l'ultima volta
che li vidi, non era allora qualcosa da ricordare, il caso ha voluto che io non
rivedessi più i miei amatissimi Bucaneve. Il Bucaneve è la pianticella del
disgelo, il suo fiore è formato da una piccola campanellina pendula costituita
da tepali bianchi, portando i miei bimbi a passeggio sulla neve avevamo imparato
a riconoscerli e capire che il loro spuntare dalla neve significava il
preannuncio sul prestino a dire il vero della primavera, loro volevano
raccoglierli, dissi che la primavera bambina anch'essa, avrebbe pianto, allora
loro non li raccolsero e da quel giorno ogni volta che si andava a passeggio
per i campi mi avvertivano di stare attento a non calpestare i Bucaneve perché
altrimenti la primavera si sarebbe messa a piangere dal dispiacere.
Percorrevo l'autostrada, e la macchina divorava i chilometri dell'autostrada,
sentivo del rimpianto nascermi dentro, l'impressione che pezzi di esistenza
trascorsa si stessero staccando dalla mia persona per perdersi lungo l'asfalto
lasciandomi scoperto e fragile, era forte. certo nella nostra nuova casa in Reggio
Emilia eravamo vicini sia ai suoi che ai miei parenti, per l'impressione
avutane anni addietro sembrava una città vivibile, specie ora! eravamo in
cinque nella macchina: Marina, i nostri due pargoletti ed il cane, un
bastardino di media taglia tutto nero e giocoso lo avevamo chiamato Wiskey.
- 63 -
Guidava mia moglie, diceva di sentirsi più sicura in quanto mi riteneva molto distratto,
io dormicchiavo a fianco a lei, ogni tanto riandavo con la mente al racconto
fattomi da Eugenio, alla cella, oramai inesistente, mi rammaricavo di non aver
raccolto le prove di tutto questo: un vecchio quaderno in bianco e quel paio
d'occhiali calpestati nell'uscire dalla cella. La storia raccontatami da
Eugenio mi procurava una certa angoscia, una certa inquietudine esistenziale.
Cercai di ripercorrere con la memoria i fatti importanti e significativi
vissuti negli anni appena trascorsi, cosa avevano significato per me,
professionalmente molto, esistenzialmente nulla, no questo era troppo, mi ero
immerso nella città, e se non fosse stato per quell'unico contatto vero
rappresentato da Eugenio non l'avrei mai conosciuta e compresa da dentro, non mi
sarei reso conto dei suoi misteri, delle sue angosce segrete.
- 64 -
L'occasione era ora buona per ripensare alla città dov'ero nato e cresciuto!
Roma già Caput Mundi, Io detto "il buraro" per via di quel nostro
negozietto sito in pieno centro in via Montoro, una traversa di via Monserrato
in realtà non l'avevo capita, avevo approfittato di lei un po' come fanno i
gatti romani con le gattare. Tutto questo pensare mentre mi allontanavo da
Torino, forse era un modo per rimpiangerla, forse qualcuno si stava
felicitando: "Un mandarino in meno", "mandarino"
un'espressione di Eugenio, appena venuto a conoscenza della mia origine.
Pretendere di essere creduto era fuori discussione, non avevo la benché minima
speranza di credibilità, sarei passato per mitomane o quant'altro. Mi accorsi
di essere osservato, Marina mi lanciava delle occhiate, disse "Sempre con
la testa tra le nuvole, controlla i bambini se sono a posto". "Marina
hai visto quando siamo partiti, tutti i vicini di casa, e dintorni come erano
sulla strada per salutarci...eppoi dicono che i piemontesi sono gente
chiusa","Guarda mio sgarullo che sono io che mi sono fatta conoscere
ed apprezzare in questi anni, tu con quel tuo muso lungo e perfido portavi solo
la sfiga","Ecco perché quando passavo io tutti chiudevano le
imposte". Mi misi a canticchiare provocando del buonumore tra i miei
figli, Marina ed abbaiare il cane: "Quando saremo a Reggio
Emilia...".
- 64 bis -
In questa seconda parte riporto la narrazione di Eugenio sia per la parte
dettami a voce
sia per quella riportata nei suoi appunti scritti
- 65 -
PARTE SECONDA
CAPITOLO PRIMO
(Vasca a Stalingrado)
Agonizzava il caporale Loffredo, agonizzava poggiato su un cumulo di
neve, neve rossa del suo sangue, nella sua corsa per la vittoria era arrivato a
circa duecento metri dallo stabilimento "Ottobre Rosso" prima di
essere colpito, alcuni soldati siberiani da dietro le loro postazioni lo
guardavano indifferenti, uno di loro, quello che lo aveva colpito discuteva con
un ufficiale, e mostrandogli il fucile gli spiegava come fosse difettoso nel
puntamento in quanto lui mirava alla testa e invece il colpo arrivava allo
stomaco. Si guardava addosso Loffredo, sentiva la morte imminente e senza rimedio,
sino a qualche istante prima l'idea di essere colpito non lo sfiorava
minimamente, era convinto di poter colpire il nemico al cuore, di conquistare
quella città simbolo del male per l'umanità, il pensiero di poter finalmente
espugnare la capitale del male l'esaltava e purtroppo gli aveva fatto perdere
il senso della realtà. Queste illusioni erano entrate nella sua cocuzza grazie
alla propaganda e addestramento militare, ora nei pochi istanti di vita
rimastigli capiva l'errore e orrore di tutte queste convinzioni. Una pattuglia
di soldati russi rientrando nelle proprie linee gli passò accanto, Loffredo
gridò loro qualcosa in russo e dalla giubba tirò fuori un Quaderno in parte
sporco del suo sangue, un soldato della pattuglia si avvicinò, tese la mano e
prese il Quaderno, quindi calò il calcio del
-
66 -
fucile in testa uccidendolo, un gesto di pietà che gli era venuto spontaneo non
voleva farlo soffrire inutilmente, di corsa raggiunse i suoi compagni dentro lo
stabilimento, si sedette in un cantuccio per riprendere fiato, il commissario
politico lo chiamò chiedendogli cosa gli avesse dato quell'Italiano, il soldato
porse il Quaderno, spiegandogli come l'Italiano gli avesse fatto capire che
apparteneva ad un loro "compagno". Il commissario lo aperse, le
pagine erano scritte in una lingua incomprensibile, fece spallucce buttandolo
in terra. Risuonò l'allarme, tutti furono richiamati, occorreva prepararsi per
respingere l'ennesimo attacco dei soldati tedeschi.
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LA CATTURA |
La pattuglia di soldati russi rientrò nel fabbricato "Ottobre Rosso",
portando seco un prigioniero, il sergente Bruno Ferreri. Tale cattura
rappresentava per loro un successo tattico notevole nei confronti del tedesco
invasore, Lo buttarono in terra, due soldati siberiani lo tenevano d'occhio,
altri due un poco in disparte stavano accertandosi della sua identità. Il
sergente sapeva perché lo avevano catturato vivo, personaggi come lui erano
numerosi in entrambi gli schieramenti. Particolarmente dotati come uccisori,
più utili dei cecchini in quanto imbattibili nei corpo a corpo e nei
combattimenti casa per casa, spesso uccidevano in modo crudele, lui ad esempio
era noto in quella zona del fronte di Stalingrado con l'appellativo di
"Sergente Mannaia", in quanto questa era la sua arma preferita, strumento
pratico e utilissimo quando nell'attaccare le trincee nemiche occorreva
combattere all'arma bianca. Questi personaggi, in qualche caso prelevati dalle
patrie galere, oppure abbrutiti tramite apposito addestramento, provenivano da
tutti i paesi e da tutti i fronti, la selezione non teneva molto conto dei
sentimenti patriottici, o del paese d'origine, si teneva conto dell'attitudine
al combattimento e l'assenza assoluta di emotività, "doti" che
rendevano questi guerrieri altamente produttivi. Negli alti comandi si era
consci di come fuori dalla contingente necessità della "mors tua vita
mea" fosse difficile costringere i soldati ad uccidere gente inerme, ciò
era evidente con i plotoni d'esecuzione, i prescelti erano selezionati tramite
attenta rotazione onde evitare la formazione di un rifiuto psicologico ad
uccidere come si verificava spesso quando gli stessi erano selezionati troppo
spesso per "imprese" del genere.
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IL RINVENIMENTO DI UN QUADERNO |
I soldati russi per quei nemici che si distinguevano in efferatezza e
"rendimento" riservavano un trattamento speciale quando riuscivano a prenderli
vivi, erano appesi nudi per un piede a testa in giù in qualche apertura del
fabbricato. Nonostante quello stato alcuni impiegavano diverse ore a morire, di
tanto in tanto erano battuti con il calcio del fucile in modo da farli urlare
per il dolore ben sapendo che sarebbero stati sentiti dalle orecchie delle
truppe tedesche, l'atto di misericordia del comando tedesco verso costoro
consisteva nel farli ammazzare dai loro tiratori scelti. Bruno in quel momento
si preoccupava solo di proteggersi dal freddo, dalle cimici e zecche che gli
succhiavano il sangue, guardando in terra fu attratto da un oggetto insolito,
un Quaderno in parte macchiato di sangue, lo raccolse l'aprì la parte leggibile
era scritta in italiano, lo stile calligrafico era ordinato, rotondino, in alto
v'era una timbratura e un numero, sulla prima riga della pagina c'era scritto:
"12 aprile 1940, i presume.", si accinse a leggere la parte
leggibile: "Sono vivo! questo è indubbiamente reale, io sono vivo recluso
dentro questa cella, ignoro il luogo ove mi trovo, ed il perché, il mio stato
di salute è ottimo. non ho avuto modo di conoscere il mio nuovo carceriere,
comunque ha dimostrato molta imperizia,
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in quanto non sono stato perquisito, quindi non si sono accorti dei quaderni
nascosti sotto la camicia, dopo aver messo in salvo quelli scritti, ho tenuto
meco questi tre quaderni ancora nuovi. Compreso che oramai il mio stato di salute
andava progressivamente peggiorando, notando nel contempo intorno a me strani
andirivieni di personaggi sconosciuti ed estranei all'ambiente ospedaliero, ho
compiuto questo atto irrazionale come atto di estrema difesa della mia persona.
La mia personale condizione umana qui dentro dovrebbe essere insostenibile e
inconciliabile con le esigenze proprie della normale vita biologica, invece
così non è, non ne capisco le ragioni. Con la memoria tento di tener conto del
passare dei giorni, l'unico aiuto in questa attività mi sovviene dal regolare
schiarirsi giornaliero "presumo" della cella in cui vivo, per alcuni
minuti tutto l'ambiente si rischiara di una debole e soffusa luce azzurrognola,
approfitto di questo tempo per scrivere un diario su questa nuova prigionia,
soprattutto per annotare alcune "quistioni" che riguardano le mie funzioni
cerebrali, organiche e psichiche. Tali "quistioni" sulle quali ho riflettuto
analiticamente mi hanno portato come conclusione di essere l'oggetto di una
"bizzarria metafisica", non ho conoscenze specifiche sulla biologia
umana, non sono quindi capace di determinare con esattezza e specificità di
linguaggio quello che adesso sono e perché lo sono. Ho scritto un
"Presumo" in quanto non ho nessun riferimento utile riguardo al
trascorrere del tempo, qui non si avverte il normale alternarsi
del giorno con la notte, non sarebbe neppure esatto dire di aver perso la
cognizione del tempo, è esatto affermare di non sentire nella mia persona il
trascorrere del tempo", ed è altrettanto esatto affermare che permanendo
questa mia condizione non necessito di "pane e casu".
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PERÒ ! … È COMODO IL DEUS EX
MACHINA (N.d.a.) |
Bruno si era immerso in quella lettura attrattovi irresistibilmente momenti.
Doveva trattarsi di un diario di qualche suo commilitone preso prigioniero e
probabilmente sfuggitogli di mano. Un improvviso brusio gli fece alzare gli
occhi, due ufficiali russi stavano camminando verso di lui, avevano lo sguardo
assente, uno dei due teneva in pugno un gancio da macellaio, lasciò cadere il
Quaderno, per la prima volta si sentiva impotente di fronte agli avvenimenti
circostanti, per la prima volta ebbe la percezione di un qualcosa di esterno a
sé che s'accingeva a toccare la sua persona in modo atroce, una reminiscenza
scolastica calò sulla sua coscienza, una frase di Tito Livio adatta alla
circostanza: "Perduratio Rerum". Improvvisamente tutto cambiò, un'esplosione
sconvolse l'ambiente circostante, Bruno si ritrovò a terra, dopo un primo
stordimento si rialzò, una nube di polvere e fumo impediva qualsiasi
visibilità, urla di disperazione provenivano da tutte le parti, orientandosi in
quel caos cercò di uscire dal fabbricato, s'udivano esplosioni dappertutto. I
germanici stavano tentando un nuovo assalto ad "Ottobre Rosso"; in
quell'assalto riuscirono a penetrare dentro l'acciaieria. Bruno facendosi largo
tra le macerie finalmente riuscì a trovare un uscita e correndo con le ali ai
piedi s'allontanò da quella zona dove i combattimenti erano più intensi. Come
in un bel prato d'erba nuova non si vedono le volpi nascoste in essa, così
Bruno si aggirava nel territorio di Stalingrado senza farsi vedere, dopo alcune
ore fece sosta in una buca per riprendere fiato, di rientrare in reparto non ci
pensava proprio. Capita a taluni di rendersi improvvisamente conto di una
qualche sciocchezza che vanno realizzando, ed allora presi da una nuova
consapevolezza abbandonano a mezza strada la mala opera, non sempre questo è
possibile, allora se proprio si è decisi occorre porre in atto decisioni forti,
coinvolgendo addirittura la sicurezza della propria persona. Questo accadde
nella mente di Bruno nel rendersi conto di voler fuggire, voler disertare
abbandonare quei luoghi infami per lui oramai completamente estranei. Vagò per
alcuni giorni, ed un nuovo proposito gli si era affacciato prepotentemente
nella sua coscienza: tornare a casa!, le sue doti di combattente erano ora
rivolte solo al suo personale proposito, sapeva di come i disertori fossero
facilmente ripresi e tutti fucilati. Questo accadeva agli stupidi, lui, con le
sue capacità, scoperte e valorizzate dal Comando Tedesco, capiva che era come
confrontare un rissoso di strada con un pugile professionista, s'immerse con la
necessaria determinatezza e accortezza nella realizzazione del suo nuovo
progetto.
- 71 -
Considerando come riferimento geografico la strada ferrata e tenendosi nel
contempo lontano da essa intraprese la sua lunga marcia. Una mattina
risvegliatosi ed uscito dalla carcassa di un carro armato ove aveva trovato
rifugio per alcune ore, sentì di lontano il tuono delle cannonate, riprese il
cammino ed in breve si rese conto di trovarsi a ridosso del fronte opposto,
realizzò con la mente quell'idea dell'accerchiamento tante volte negato dalla
propaganda. Decise di varcare le linee nemiche e andare oltre, conscio di come
avanti a sé si stendesse una pianura infinita, gelida, uniforme e bianca.
Iniziando a percorrerla, aveva l'impressione di camminare dentro la sua mente,
doveva fare attenzione agli "automi grigi", era l'epiteto con cui
chiamava sarcasticamente i soldati sovietici, per lui erano solo ombre grigie
da cui doveva fuggire a tutti i costi, anche dai Tedeschi, in generale da
tutti, in questi luoghi di villeggiatura era normale che tutti fucilassero
tutti. Nel caos generale dovuto allo sfondamento del fronte, lui ben armato e
ben coperto per quel tipo di viaggio prese coscienza come la parte debole di sé
non fosse il fisico ma la mente.
- 72 -
Dopo tanto tempo sentiva qualcosa di nuovo e nello stesso tempo remoto dentro,
il cervellino riprendeva alcune delle sue funzioni. Sembra incredibile come
distanze abissali soprattutto considerando il mezzo di trasporto: piedi e
piedi, possano essere relativamente percorse in tanto breve tempo. Il gelo, le
tormente di neve, furono le uniche vere compagne del suo viaggio, amiche care,
in quelle condizioni lui sapeva di essere almeno pari ai tanto temuti soldati
siberiani, quando proprio non riusciva a sfuggire a qualche pattuglia russa o
tedesca l'affrontava non fuggendo ad essi ma andando loro incontro, nonostante
i suoi ventidue anni poteva considerarsi un vero professionista della guerra,
la dote che gli ritornava più utile oltre ad una straordinaria resistenza
fisica, era la precisione nel tiro, con il suo fucile Mauser provvisto di
cannocchiale colpiva un bersaglio al limite della portata di tiro, roba da oro
olimpico. L'avventura del rientro era iniziata non sapeva ancora dello
arretramento delle linee tedesche, nella steppa gelida l'incontro più frequente
riguardava i cadaveri di persone provenienti da un capo all'altro del mondo
venuti qui a morire congelati.
- 73 -
LA
MISERICORDIA |
Stava avvicinandosi all'isba, con il binocolo l'aveva scorta da tempo, era in
posizione staccata dal villaggio ed isolata, pareva un ottimo posto essendo solo
in parte diroccata, nella parte intatta intravide un filo di luce provenire da
un'imposta chiusa e sprangata. Avvicinandosi cautamente, riuscì a sbirciare
dentro, una figura si muoveva, si trattava di una giovane donna, stava seduta
sul letto tutta intenta a curarsi la sua persona. Quella scena surreale lontana
dall'orrore di morte e sofferenze abituali in quella maledetta distesa di
ghiaccio lo fece rimanere per qualche tempo interdetto sul da farsi. Infine si
decise estrasse dalla giubba la sua mannaia, là dentro c'era tutto il
necessario per sopravvivere ancora un giorno, sesso e carne a volontà. Entrò,
lei lo guardò impietrita dalla sorpresa e dalla paura, Bruno alzò la mannaia,
lei chinò la testa iniziando a recitare una specie di nenia a bassa voce, non
piangeva, non tremava, non si disperava. Rimase sconcertato, indeciso, stette
immobile per diversi secondi come un fesso, altre volte aveva avuto vissuto
scene simili, donne, vecchi, bambini, imploranti misericordia mentre. calava la
mannaia. Dopo tanto tempo risentiva dentro la percezione del dolore che stava
per infliggere ad un essere umano, prese coscienza dello stato di abbrutimento
cui era pervenuto. Stando lontano dal reggimento e dal suo capitano, il
condizionamento militare veniva meno ed i suoi pensieri avevano ritrovato una
parziale autonomia di giudizio. Nella circostanza specifica non c'era alcuna
necessità di lasciarsi andare all'abituale crudeltà tanto in auge sul fronte
russo.
- 74 -
Lei come intuendo la sua indecisione alzò gli occhi verso di lui proseguendo
nel suo soliloquio. Bruno rimise nella giubba la mannaia ed uscì
dall'abitazione, ancora disorientato dalla scenetta appena vissuta fece il giro
dell'intero caseggiato e nella parte diroccata della costruzione trovò il
riparo adatto ove trascorrere la notte e con il suo telo si coperse alla
meglio. Non dormiva o meglio dormiva con un occhio solo, per questo percepì un
lieve fruscio, senza muoversi alzò la nagan puntandola davanti a se, vide un
ombra piccola avvicinarsi svelta, era la donna, gli si avvicinò quasi a
sfiorarlo, lui sorpreso s'accorse che teneva qualcosa nella mano: un pentolino
colmo di "kasa", glielo prese senza profferire parola e mangiò di
gusto quella sbobba calda e nutriente, non avrebbe mai scordato negl'anni a
venire quest'episodio, quel conforto, inatteso, insperato, rimase nella sua
memoria come una piccola luce, reale, tangibile, di come alcuni non si lasciassero
trascinare dal velenoso vortice dei fatti contingenti quando questi tutto
distruggono, rovinano, coinvolgendo la gran parte delle persone verso
comportamenti inumani, bestiali. Quand'ebbe finito le ridette il pentolino
senza proferire parola, la vide allontanarsi nello stesso modo di come s'era
avvicinata, tutto contento della fortuna capitatagli continuò nel suo
dormiveglia.
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Alle prime luci dell'alba riavvolse il suo telo, unico riparo per la notte
appena trascorsa, s'apprestava a riprendere il cammino quando notò un involucro
vicino a sé, apertolo trovò dentro avvolto in un panno un tozzo di pane scuro,
lo prese e staccandone con i denti un pezzo tutto ghiacciato lo mise in bocca
per scioglierlo e mangiarselo, tirò fuori dalla giubba la bussola per fare il
punto della direzione da prendere, ovest ovviamente, e riprese il cammino
allontanandosi dall'isba. Ogni mattina oltre alla bussola osservava l'orizzonte
per fare il punto geografico, il sorgere del sole gl'indicava la direzione ove
procedere, verso ovest, verso casa. Il rumore lontano di un semovente gli
consigliò di sdraiarsi nella neve ed aspettare che passasse. Il cingolato
s'avvicinava proprio verso di lui, Bruno s'appiattì ancor più al suolo, armò il
fucile e il mirino, non doveva sbagliare, quello era un ottimo mezzo per
procedere, era necessario uccidere il conducente, avvicinarsi e liquidare con
la nagan il resto della compagnia. Il cingolato inaspettatamente s'arrestò, si
sentirono delle imprecazioni provenire dall'interno si trattava di un gruppo
d'Italiani, Bruno urlò loro: "Maccaroni volete farvi sentire da tutti
neh!", quelli allarmati e impauriti, tacquero rimanendo dentro il
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cingolato, Bruno avvicinandosi e bussando sulla parete d'acciaio gridò loro
"Camerati coraggiosi uscite sono dei vostri", quelli rincuorati uscirono,
erano in tre tutti soldati semplici, in breve aggiornarono Bruno sulle vicende
del fronte a loro note, avevano rimediato quel cingolato tedesco e tentavano di
raggiungere il nuovo fronte a circa trecento chilometri verso ovest, insieme
controllarono la causa del guasto. Bruno si rese conto che semplicemente non
erano capaci di guidarlo, avevano sempre e solo guidato asini, e ora di fronte
a questo mostro tecnologico si trovavano in evidente difficoltà. Bruno comprese
che proseguire con loro poteva senz'altro fargli comodo, si mise alla guida e
procedendo lentamente, proseguirono nel loro cammino. I tre soldati rincuorati
dalla presenza di un sergente esperto iniziarono a fargli delle domande su dove
fosse dislocato il suo reparto, quando seppero che proveniva da Stalingrado si
guardarono meravigliati e tutti e tre all'unisono gli posero l'identico
interrogativo: "Come hai fatto a riuscire a scappare, ad arrivare sino
qui", Bruno li guardò sarcasticamente e disse: "E voi come?".
Verso sera mentre ragionavano su dove accamparsi per la notte, furono
interrotti dal rombo cupo di aeroplani, uscirono tutti dal cingolato
disperdendosi il più lontano possibile. Si trattava di caccia russi che
inquadrato il cingolato lo centrarono con una bomba facendolo saltare in aria,
la radura intorno venne anch'essa bombardata e mitragliata. Appena i caccia
s'allontanarono Bruno si mise alla ricerca dei suoi compagni, due erano morti
del terzo per quanto cercasse e urlasse non trovò traccia alcuna. Dato un
ultimo sguardo agli effetti dell'attacco russo riprese il cammino. Non si
sentiva tutto sommato frustrato dal dover riprendere la marcia, il cingolato
gli era tornato proprio comodo, grazie ad esso ora si trovava a poca distanza
dai reparti tedeschi e italiani in ritirata.
- 77 -
Da tempo seguiva ad una giusta distanza i resti dell'ARMIR, un'armata di ancora
centomila soldati che accerchiata in una sacca dallo sfondamento del fronte del
Don operato dai russi all'inizio del 1943, tentava di uscirne per ricongiungersi con la nuova linea del fronte.
L'incontro era stato casuale, alcuni giorni successivi all'incontro con i suoi
commilitoni grazie al suo udito finissimo aveva sentito dei gemiti, dei lamenti
provenire in lontananza, da qualche punto avanti a lui, forse ad un paio di
chilometri, comprese che quei rumori non provenivano da una pattuglia o
gruppetto di sbandati ma da reparti di una certa consistenza numerica, accelerò
il cammino, arrivato su di una collina, osservando l'orizzonte con il binocolo
vide un fiume di soldati in marcia, si perdevano nell'orizzonte tanti erano, si
rese subito conto che quella moltitudine non era altro che l'intero corpo di
spedizione italiano. Si riconoscevano facilmente: erano tutti a piedi...., e si
lamentavano. Bruno reputò l'incontro una vera fortuna, poteva usufruire di un
punto di riferimento sicuro e di cibo in abbondanza. Per sopravvivere, usava
una ricetta alimentare molto in auge in quei luoghi da ambedue i fronti: carne
umana, sempre disponibile in abbondanza e sempre fresca. Bruno aspettava al
momento opportuno il mussulmano di turno, e prima che questi s'accasciasse
sulla neve oramai morituro, lo finiva con il coltello, quindi colpendolo con la
mannaia gli squarciava il torace strappandogli il cuore, e mangiandoselo con
gusto in quanto ancora ben caldo. Affrontare in codesto modo la ritirata e i
rigori del generale inverno fu come "viaggiare in carrozza". La cosa
non passò completamente inosservata, sia da parte degli inseguitori che da
parte degli inseguiti, ma data la situazione contingente, limitate possibilità
operative per il Comando Italiano e occasione propagandistica per i Russi di
evidenziare la bestialità dell'invasore, nessuno rimase particolarmente
impressionato da quel comportamento criminoso di cui Bruno non era certo
l'unico autore.
- 77 bis -
L'equipaggiamento di cui si era dotato rispondeva a tutti i criteri di idoneità
per affrontare quel viaggio: Scarponi a oppia imbottitura, pastrano
impellicciato, colbacco di pelliccia e tuta mimetica bianca. Uno zaino
contenente: munizioni, telo, e altri cancheri, a tracolla portava un mitra
tedesco, una pistola russa modello "nagan" e un grappolo di bombe a
mano. L'armata rifletteva Bruno era solo in apparenza sbandata, quegli uomini
da tutti (nemici ed alleati) non molto considerati come soldati rappresentavano
in quella nuova situazione un esercito temibile, centomila mammoni che pur di
tornare a casa dalle loro famiglie, madri, e mogli, avrebbero fatto a pezzi
qualsiasi corpo corazzato che si fosse interposto fra loro e il rientro in
patria. Così fu, I russi si guardarono bene dall'affrontarli in una vera e
propria battaglia, strategicamente inopportuna, preferirono, anteponendo loro
le normali forze previste per "tenere il fronte", farli rientrare
dietro la nuova linea del fronte, risultando quindi da un punto di vista strettamente
tattico imbattuti militarmente.
- 77 ter -
LA BANDIERA DEL REGGIMENTO |
I Russi stavano attaccando, c'era una compagnia di alpini a fronteggiarli con
Alcuni pezzi, dei 45. Bruno si era subito allontanato di gran carriera
dall'epicentro dell'attacco e postosi al sicuro osservava la battaglia con il
binocolo, comprese che sarebbero stati fatti a pezzi prima di sera, aveva fatto
bene ad allontanarsi. La compagnia sacrificata per permettere la ritirata
ordinata di un grosso distaccamento di sussistenza accompagnato da un ospedale
da campo, si ritrovò dopo alcune ore a mal partito, furono accerchiati e
abbattuti a colpi di cannone. Guardandoli sempre con il binocolo Bruno notò che
i superstiti del massacro in tutto cinque uomini, tentavano di sganciarsi, i
Russi non lasciarono alcuna via di fuga e li stavano uccidendo uno ad uno, l'ultimo
soldato rimasto in vita invece di proseguire nella sua fuga disperata
avvicinandosi ad un compagno caduto gli aprì la giubba e ne trasse un
gagliardetto, nel frattempo i Russi gli furono sopra, "ecco la meritata
fine dei grulli" rimuginò Bruno osservando quella che riteneva una
corbelleria. Ma i russi non lo ammazzarono, anzi abbassarono i mitra e uno di
loro fece un gesto preciso con la mano, lo invitava ad andarsene. Bruno staccò
gli occhi dal binocolo e con gli occhi bassi rimirandosi gli scarponi allibito
per quanto aveva appena visto riflette fra se: "Ecco tutta gente migliore
di me, questi sono rimasti uomini nonostante l'orrore di questi luoghi".
Riprese il cammino considerando il biancore e il gelo della steppa circostante
null'altro che una emanazione della sua mente.
- 78 -
Tranquilli... che dietro c'è Mannaia...
Batteva i denti da quando era arrivato in questa steppa maledettissima, li
batteva d'estate e d'inverno, in ogni stagione soffriva il freddo, l'eroe in
questione è il colonnello Cirrincione un tipo più largo che alto, alto...
basso... anzi bassissimo. Lo avevano messo nelle retrovie per cercare di
difendere il culo dell'ARMIR dagli assalti russi, in poco tempo era riuscito
brillantemente nello scopo in quanto aveva capito che i russi non volevano
proprio sterminarli come facevano con le armate tedesche, si ogni tanto
sparavano qualche colpo di cannone come per sollecitarne il passo. Si erano
accorti che la reazione degli Italiani in ritirata era sommamente qualificata,
in quanto finalmente motivati dal miraggio del ritorno a casa. Il colonnello
Cirrincione faceva la sua parte e i russi altrettanto, accadeva a volte che
avamposti russi ignari del tacito status quo o accortisi che unità tedesche
furbamente si erano infiltrate nei reparti dell'ARMIR per ritirarsi anch'esse
indisturbate iniziassero ad attaccare la retroguardia Italiana, in genere dopo
qualche giorno tutto finiva e si ritornava con la solita manfrina.
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In quei casi il nostro colonnello doveva darsi da fare e se l'alto comando lo aveva
dislocato nelle retrovie qualche ragione doveva pure esserci, in effetti
riusciva sempre a disimpegnarsi in maniera egregia con le sue unità che seppure
coraggiose rimanevano alquanto sotto ai normali standard per quanto riguardava
l'armamento. E non passava giorno che l'alto comando non gli conferisse una
medaglia al valore. Durante un attacco massiccio di reparti russi il nostro
colonnello studiando il fronte con il suo binocolo s'accorse di una singolarità
nella linea del fronte, chiamato il suo aiutante di campo il capitano Esposito
l'apostrofò: "Capitano mio bello, come mai che sulla sinistra da vari
giorni siamo relativamente tranquilli, cos'è ai russi mancano comandanti
mancini". Tutto contento della sua battuta prese a ridere alla grossa
piroettando su se stesso, batteva i denti dal freddo, raffreddato si puliva il
naso con la manica del cappotto, lasciatolo sfogare il capitano gli mise una
mano sulla spalla e ridendo anche lui sguaiatamente gli rispose "No
culunnello da quella parte ci segue uno dei nostri, un sergente non so chi sia
ma qui dicono che assomiglia a Tom Mix, tiene una mira infallibile e sembra non
patire il freddo, non s'avvicina a noi rimane distante a un chilometro un
chilometro e mezzo, anche i russi lo evitano". Osservò il colonnello
"Beh non vorrei che facesse incazzare qualche commissario politico e
scatenarci addosso un bel contrattacco". "No Cirrincione che dici
mai, quello serve per gli spuri quelli che non sanno, in questo modo si
guardano bene dal fare cazzate".
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"Controllalo comunque, vedi che ci lasciano ritirare abbastanza
tranquilli, quindi non
rompiamo l'equilibrio strategico, informati chi cazz'è".
"Ah subitu culunnello chiamo Carmelo detto il maresciallo Gargantua".
Fischiò verso qualcuno e questi venne a rapporto, era un povero cristo che
durante la
bella stagione faceva da aiutante di fureria, ma che ora in quella ritirata
teneva
sempre più l'aspetto del mussulmano.
"Carmelo il culunnello vuole sapere chi è quel sergente là in fondo che ci
segue da
lontano".
"È Mannaia Capitano",
"Chi !?",
"Il sergente Ferreri Bruno del reggimento distaccato dentro Stalingrado,
per fortuna
che è dalla nostra",
"Beh bravo si sfama con qualche russo di passaggio levandocelo dalle
palle" rispose il Colonnello,
ma Carmelo fissandolo negl'occhi e avvicinandosi ai due e abbassando il tono della voce disse: "Colonnello chillo mangia anche...anzi...soprattutto i nostri, aspetta che qualcuno rimanga distaccato e lo "magna" bevendone il sangue e il tutto tenendolo in vita, altrimenti si ghiaccia e non è chiù buono. Signor Colonnello guai ad avvicinarsi, ci si ritrova con il petto squarciato...i russi hanno provato ma...e come i gatti, tiene sette vite". Il colonnello Cirrincione si volse verso la direzione dove doveva esserci Bruno che d'altronde indossando la tuta mimetica per la neve era di difficile individuazione, quindi come parlando a se stesso "Ci fa più meglio accomodo di una unità da campagna, il mio ordine è di lasciarlo fare!!, non contattarlo, evitare che circoli qualsiasi voce su di lui, un angelo siffatto dobbiamo tenercelo caro in quanto la sua presenza rappresenta un vantaggio tattico notevole. Ecco spiegato come Bruno riuscì ad uscire dalla sacca di Stalingrado e successivamente ricongiungendosi con il Corpo di spedizione Italiano, rientrare dietro le linee del nuovo fronte e successivamente per avvicendamento rientrare in Italia.
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SI ! MIO CAPITANO
Andava avvicinandosi ad un mussulmano, questi ogni tanto ondeggiava, si
trascinava stancamente ricoperto da un telo. Bruno osservò la sagoma del soldato
attentamente, convinto di conoscerlo si avvicinò per osservarlo meglio, presolo
per una spalla lo volse, questi non oppose nessuna resistenza, si limitò ad
alzare lo sguardo, per Bruno non ci furono più dubbi, si trattava del suo
capitano. Colui cui sempre aveva dovuto obbedienza, colui che sempre lo aveva
incitato contro il nemico, colui che non credeva ai suoi rapporti,
chiedendogli: "Sergente fanfarone portami le palle degli slavotti che dici
di aver ammazzato in pattuglia". anche il capitano lo riconobbe, e
sollevato da quell'incontro insperato prese a parlargli: "Bruno ti avevamo
dato per morto, invece sei il solito indistruttibile, al contrario di me oramai
ridotto ad un mussulmano", "Capitano, vi rimetto a posto io, non
preoccupatevi", "Cosa puoi fare tu, non vedi, non passerò la
notte", "Capitano, la vostra baldanza dov'è ora, ricordate come
eravate truculento sadico, e stronzone al massimo, vi divertivate con me e con
i vostri soldati", il capitano abbassando lo sguardo rispose: "Che
dovevo fare mettermi a piangere perché eravamo accerchiati senza speranza di
essere liberati, in questo modo non si pensava al peggio ti pare ?",
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"Si, si, parlate bene voi, ma io grazie a voialtri mi sono trasformato in
quello che non volevo essere, un macellaio di carne umana", "già
avevi nel sangue queste attitudini Bruno, le circostanze che ben sai hanno
fatto si che anziché essere represse esse si sviluppassero nella loro pienezza,
tanti in questo frangente si sono facilmente trasformati in mostri, quando
questa guerra finirà impiccheranno qualche gerarca e gli altri torneranno tutti
in chiesa la domenica con la coscienza tranquilla", Bruno lo spinse in
terra gridandogli "Maledetto, maledetto", infierì su di lui con calci
e pugni, il Capitano non reagì, rimase immobile sotto i colpi di Bruno, e
quando questi si fermò gli disse: "Eh pataca se eri tu il capitano eh,
vedi sarebbe stato ancora peggio per la compagnia, adesso basta parlare,
uccidimi pure, tanto ho ancora poco da vivere ridotto come sono", "Si
capitano bello ti faccio volentieri il favore nel modo che mi avete insegnato
voialtri", gli aprì il pastrano, scoperse il torace, con il coltello gli
praticò un'incisione appena sotto lo sterno, mise la mano dentro, sentiva il
cuore pulsare, il capitano rimase esterrefatto non si aspettava di essere
ancora vivo in quello stato, Bruno lo guardò sogghignando e con l'altra mano
sempre impugnando il coltello estirpò il cuore e sollevatolo trionfante in aria
se lo portò alla bocca ancora caldo mangiandone alcuni bocconi, lo gettò nella
neve, dette un'ultima occhiata ai resti del suo capitano, si pulì le mani e
rimessosi i guanti di pelliccia riprese il cammino.
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Infine come riportano le cronache ufficiali, il corpo di spedizione Italiano
riuscì nel suo intento di rientrare nella nuova linea del fronte, anche Bruno
rientrò. Destinato a rientrare in Italia per il normale avvicendamento, fece un
viaggio normale sino a Leopoli in Polonia, qui il reparto dove era stato
aggregato, salito sulla tradotta iniziò il viaggio di rientro. Sino a Milano
era assicurato un certo conforto, carro bestiame pulito di fresco, pochi
avevano voglia di parlare, nessuno di cantare come era successo durante il
viaggio di andata, Bruno si sistemò in un cantuccio, e non volendo parlare con
nessuno rimase per un bel pezzo a testa bassa tentando di prendere sonno.
Passate alcune ore un commilitone sergente anche lui gli rivolse la parola,
"Da dove vieni", Bruno senza alzare la testa rispose: "Dalle
vacanze stronzo", tutti risero nel carro, il sergente continuò: "Come
mai non tieni le mostrine", "Le ho portate in lavanderia, mi lasci in
pace per favore neh". Un soldato gli chiese "Uh sei di Torino
?", Bruno decise di non rispondergli, non voleva parlare con nessuno e
determinato nel proposito si mantenne poco loquace per tutto il tragitto.
Arrivato a Milano si procurò degli abiti civili, un vestito usato che nascose
nella bisaccia, arrivato a Torino scese alla stazione di Porta Susa, passato il
controllo militare si diresse verso i bagni, qui cambiatosi con abiti civili
percorse a piedi la strada verso casa, camminava sereno tranquillo, oramai
stava per raggiungere la meta tanto attesa. La sua avventura militare dopo
circa due anni poteva dirsi conclusa, anni rovinosi per il suo carattere, la
sua personalità rimase completamente stravolta, dalla seduta abbastanza lunga
di Jogging da Torino a Stalingrado e ritorno.
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IL GATTO DI CASA |
La madre di Bruno trascorreva tutto il tempo in casa, usciva solo la domenica per la messa, questo dal giorno della
partenza del figlio per il fronte, partenza che ancora le pesava come un
macigno, una iniziativa improvvisa che nel giro di pochi giorni la separò dal
suo Bruno, era stato lui a volersi arruolare volontario prima che arrivasse la
cartolina di richiamo. Si era illusa ingenuamente che la guerra non riguardasse
il figlio, ora ripensava sempre a questa ingenuità infantile, la sua era stata
una ribellione verso di lei, questa era la verità, una ribellione alla sua
apprensione al suo amore a tutto ciò che di materno lei rappresentava per lui.
Da quei giorni si era allora rinchiusa in casa aiutata per le faccende
domestiche da una cameriera ad ore, la sera si preparava la cena consumandola
nella cucina, e prima di coricarsi nel letto recitava il rosario stando
sull'inginocchiatoio, pregava per il ritorno del suo unico figliolo, per
l'anima di suo marito, e per il ritorno della pace. Viveva sola in
quell'appartamento troppo grande, troppo severo, troppo tetro, sua unica
compagnia era "Perseo" un bel gattone tutto nero, con una lunga coda,
non ciccione ma grosso, guardandolo le venivano in mente le parole del figlio
dette qualche tempo prima di partire soldato: "Mamma..., mamma che ti
dicevo è fuori della norma Perseo", "Dimmele queste misure
Bruno", "Mamma misura coda compresa novantacinque centimetri, ed è
alto sulle zampe posteriori trentacinque centimetri",
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"Però!, lo trattiamo bene il nostro gatto non ha certo bisogno di andare a
caccia di topi lui",
"Mamma è specializzato solo nel dormire". Le venivano due lacrimoni a
rievocare il tempo felice quando lui era in casa, lo vedeva crescere, lo curava,
con un attaccamento materno forse eccessivo, ma da quando era rimasta vedova,
quel figlio era una ragione valida di vita, pur nella disgrazia capitatale si
riteneva fortunata, il marito le aveva lasciato un certo patrimonio da cui le
veniva una rendita sufficente alle sue necessità, e a permettere al suo Bruno
di andare anche all'università che purtroppo aveva dovuto interrompere per via
della guerra. Alcuni in città si esaltavano per via della guerra, sicuri della
vittoria, lei con ancora in mente i discorsi del marito sulle sofferenze patite
nella grande guerra, la vedeva per com'era: una disgrazia una grande inutile
disgrazia. Subito cacciò via le lacrime sapendo quanto queste disturbassero
Bruno, provava amarezza per questo lato del carattere del figlio, ricordava il
giorno della sua prima comunione, scappò dalla chiesa e in seguito non ci fu
verso di fargliela fare, non era un ribelle, la maestra prima ed i professori
poi erano tutti concordi nell'affermare come fosse diligente a scuola con un
rendimento nella media e sempre composto e educato, aveva si quelle impuntature
del carattere che non lo rendevano un tipo simpatico. Tutti questi pensieri le
venivano soprattutto di sera, e fu una sera mentre rassettava le ultime cose in
cucina sotto lo sguardo attento di Perseo, che questi girò improvvisamente la
testa in direzione dell'ingresso, nello stesso tempo direzionò le orecchie in
avanti, dopo qualche secondo s'alzò, uscì dalla sua cuccia posta in un angolo
della cucina e trotterellando verso l'ingresso si fermò sedendosi ritto sulle
zampe anteriori, il suo sguardo rimase fisso sulla porta.
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FINE
DELLE VACANZE |
La madre ebbe un tuffo al cuore, Perseo si era comportato come era solito fare
quando udiva il suo Bruno entrare nell'androne del portone dabbasso, con
l'acutezza dell'udito di cui i gatti sono capaci riconosceva i suoi passi,
sorpresa con il cuore in tumulto corse speranzosa verso l'ingresso, non percepì
alcun rumore, rimasero tutti e due fermi ad osservare la porta, dopo alcuni
secondi sentì un lieve rumore di passi, nel contempo Perseo avvicinandosi alla
porta annusandola e voltandosi verso di lei emise un breve miagolio. Udì un
tocco sulla porta, un'altro tocco lieve questa volta le confermò l'arrivo del
suo Bruno, era il loro segnale di riconoscimento, si ricompose ed aperse la porta. Entrando in casa Bruno si commosse
solo un istante, accadde mentre richiudeva la porta dietro di se, stette alcuni
secondi in silenzio a rimirare il pavimento, si riprese da quel magone
improvviso e inatteso. Si guardò intorno tutto era come si aspettava, la madre
l'abbracciò appena, e tenendogli una mano sulla spalla si diressero insieme
verso la cucina. Bruno si sedette silenzioso con un espressione grave sul viso,
la madre prese a preparare la cena, rimasero in silenzio tutti e due, appena
una lacrima uscì dagli occhi di lei, Bruno non voleva che piangesse, si arrabbiava
quando accadeva, quella volta tacque. In più di due anni di assenza non aveva
mai scritto una lettera alla madre, mai aveva fatto sapere sue notizie, ora era
ritornato, fuggendo da Stalingrado, dove da assedianti erano divenuti
assediati, e lui protagonista e
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testimone della più grande battaglia della storia sia per la massa dei mezzi e
uomini coinvolti sia per l'intensità psicologica con cui questa era stata
vissuta dai protagonisti. Vagava con lo sguardo rivolto al pavimento,
riconoscendone le piastrelle ad una ad una, a tutte aveva dato un nome nelle
sue fantasie giovanili, le osservava sorpreso di poterle rivedere di essere di
nuovo in casa, casa che invero non aveva mai amato particolarmente, la chiamava
"il nostro antro". Alzatosi dalla sedia si diresse nella sua camera,
qui chiamò forte la madre come era abituato a fare sin da piccolo, le chiese se
avesse toccato qualcosa, la madre gli rispose: "Bruno mi sono limitata a
tenere pulito e a rifare il letto, stasera puoi dormire qui senza
problemi". Domandò se il gatto era entrato in camera "Bruno capisce
che tu non vuoi è sempre rimasto sulla porta senza mai entrare", ritornarono
in cucina. Bruno toccandosi la faccia con ambedue le mani, disse di sentirsi la
febbre, lei appoggiandogli le labbra sulla fronte gli rimase per qualche
istante attaccata poi si staccò rassicurandolo. Mentre cenava, pensava come
tutti gli avvenimenti vissuti sino allora, sarebbero divenuti con il tempo
sempre più lontani, l'oblio avrebbe reso i ricordi di guerra sempre più
sbiaditi e labili, per cui decise di non parlarne mai con nessuno. Riandava
accorato con la memoria agli anni precedenti alla guerra quando ragazzo spensierato
scherzava con le ragazze del quartiere, le quali invero lo prendevano in giro
reputandolo un "bruttino", tutto questo era adesso lontano mille anni
dal suo nuovo modo di essere e pensare e della nuova realtà sociale creatasi
per via della guerra. Queste nostalgie doveva farsele sparire dalla mente,
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occorreva invece darsi subito da fare per progettare come cancellare tutte le
tracce relative al suo recente passato militare, nelle retrovie poco prima di
rientrare in Italia si era reso conto dello sfascio cui era precipitato
l'esercito, voci sempre più insistenti parlavano di disfatta militare, dovuta
oltre che da palese impreparazione anche da "tradimenti". Chiacchiere
di sogliola certo, confermate una volta rientrato in Italia dal nuovo clima
sociale, disordine dappertutto, un gran partire di generali e generaloni, Bruno
guardava a questo nuovo scenario con compiacimento, niente di meglio per
squagliarsi tramite le solite carte false ottenute ungendo di volta in volta il
personaggio giusto. Dopo aver cenato sempre in silenzio si diresse nella sua
camera, dalla giubba trasse fuori un pacchetto di lettere, e chiamando la
madre, gliele porse, lei le guardò a lungo, e amareggiata chinando la testa gli
chiese: "Ma Bruno non le hai neppure aperte, perché ?", "Mamma,
immaginavo il contenuto e siccome per tutto questo tempo non sono stato certo a
fare il missionario, anzi... non era proprio il caso di leggerle"
"Sai... quando partisti... immaginavo di non ricevere tue lettere, sentivo
in cuor mio che tu eri vivo, non ho fatto fare nessuna ricerca al Distretto
militare, come avevi chiesto", "Bene hai pensato il giusto, ora preparami
il bagno come al solito", il come al solito si riferiva al bagno con acqua
fredda, un' abitudine che non era riuscita a sradicargli quante volte tutta
impaurita aveva chiamato il medico, e questi a rassicurarla. "Signora il
suo Bruno ha ereditato questa capacità invero singolare di sopportare senza
sforzo e conseguenze un bagno che spedirebbe la maggior parte di noi difilato
dal creatore. Spogliatosi si diresse verso il bagno fermandosi ogni due passi,
guardandosi prima i piedi ed intorno e così via, entrato infine nella vasca
aiutato dalla madre fece il bagno, un vero bagno. Ritornato nella stanza da
letto, si levò l'accappatoio, con gesti lenti e misurati si mise il pigiama, la
madre intanto gli acconciò il letto.
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Bruno sedutosi sulla sponda del letto, rifletteva sul fine ultimo del suo
viaggio di ritorno, la lotta aspra, spietata e dura per sopravvivere, ecco,
pensò rimirandosi le belle pantofole che ritornava a mettersi, ecco realizzati
i miei ideali. Messosi a letto, disse alla madre: "Mamma, quelle tue
lettere, leggimele adesso, non credo di poter prendere sonno", La madre
per il resto della serata, e della notte aprì le lettere leggendogliele ad una
ad una. Per due anni gli aveva scritto con tutto l'amore possibile, in quel
modo lo sentiva vicino, per alcune si era rivolto al parroco, chiedendogli di
aiutarla nello scrivere per indurlo a comportamenti conformi ai precetti
cristiani in quella stagione della sua giovane vita già piena di tragedie.
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LETTERA AL FIGLIO
Caro Bruno, ho tanto sperato in una tua bella visita, come mai che non ti danno
una licenza oramai sono sei mesi che sei partito Bruno mio dolce della tua
mamma. Tra poco è la cara festa di Natale, ci vediamo circondati da tante cose
belle e persone buone come da tante cose passeggere e inutili rivestite di
lusso e di vanità. Tu sei diventato uomo in questi tristi giorni della nostra
epoca, i lutti colpiscono noi genitori togliendoci gli affetti più cari, il mio
cuore è stato sempre per te in questi giorni. Più si pensa al significato della
vita, al valore dell'uomo e più si devono ricercare i veri valori. Le doti
meravigliose dell'anima sono uniche, esse portano alla penetrazione del bello e
del vero, del bene e del male in una continua e costante scelta volontaria, la
portano anche alla indovinata realtà pratica e umana, alla civiltà e alla pace.
Ti auguro nuovamente tanta fede e tanta pace, ma luce su tutto, nella non
semplice e neppure facile vita di oggi, il coraggio di soffocare i moti di
ribellione della bassa natura che impediscono lo slancio di bene e perfezione,
la serenità assoluta nel pensiero e nei sensi. Ti auguro Bruno mio di poterti
ispirare sempre alle fonti della verità e dell'amore nei momenti di maggiore
buio, la prudenza sia la tua strada maestra e così il rispetto verso i tuoi simili
considerandoli come fratelli nella grande comprensione delle leggi di Dio.
Sappi trionfare nella lotta con te stesso, senza avvilirti delle perdite, con
lo sguardo fisso agli insegnamenti Divini. Questo sia abituale e santo e
perenne. Allora sarai un uomo mite e superiore e non ti tocchino le aspre
bieche e violenti voci interne ed esterne, esse sperino inutilmente il rimando
da te. Il mondo avverso che è nella grande massa che ti circonda, non ti tocchi
non ti avvolga e non s'insinui mai.
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Sii felice, solo per la sicurezza di fare la vera volontà che è la somma e, in
essa sicuro che tutto sarà dolce e soave, perché soavità, bontà, e grazia sono
sapere. Così tutti quelli che vedono sanno acquistare la dote di convivenza
nella società civile e assolvere sicuri la grande missione delle vie angeliche
dell'esempio. Noi non siamo ne' una massa ne' un numero ma compartecipiamo alla
vita logica in cui siamo anche difesi. La dignità e l'educazione non sono
altro; grazia in opposto alla violenza e silenzio breve, facile e meno vasta e
conclusiva. Le parole controbattute alle parole, sono il quadro meschino delle
discussioni di tutti i momenti, tacere e sorridere in se stessi è sostanza
dell'amore infinito e superiorità di carattere. Dalla realtà della creazione si
è formata questa dottrina di verità che è necessaria in ogni occasione: in casa
e fuori di casa. Ricordati dunque Bruno di ricevere i doni spirituali di Gesù
bambino che sono vicini a tutti noi se sappiamo stimare i loro valori e cercare
la salvezza. La realtà naturale nel suo disegno di perfezione ti mostri in
opposto alle vivaci che non valgono se non per la ragione più la famiglia
divina che è il modello di quella cristiana Ama la famiglia tua per la mamma
che vigila e prega per voi ed in voi ripone tutte le sue speranze. Nel contatto
coi tuoi e con gli estranei ricordati che sotto le espressioni che colpiscono
sono nascoste sempre pene e mancanze
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di insegnamento ricevuto, appreso e ricercato. L'uomo giusto sa capire e
compatisce. Una parola gentile, una risposta mite prudente, quando necessaria
può trasformare finemente e delicatamente una situazione dolorosa quando si
agirà solo ed unicamente vedendo Gesu negli altri. Natale è la grande festa del
perdono largo e incondizionato. Che la tua anima figlio mio sia pura per
innalzarsi a Dio, libera e felice nella sua coscienza Qualcuno ci aspetta per
accompagnarsi sempre con noi. Qualcuno che dice: Pace in terra agli uomini di
buona volontà. Rispondiamogli con la più umile e affettuosa carità verso di lui
e dei suoi per cui ha dato la vita. Egli è Dio, l'amico divino presente sempre.
Per lui noi cristiani possiamo vivere senza consolazioni umane e condurre una
vita difficile. gli affetti umani saranno come il bicchiere d'acqua per
l'assetato, ma non l'onda corrente che ridà la vera vita. Il lusso e le
comodità saranno un gelido cielo stellato non il giorno nel pieno splendore.
Amiamo i sacramenti, rispondiamo alla voce del sangue prezioso che è
onnipotente sul male che abbiamo compiuto. Rispondiamo al richiamo
dell'infinito tesoro nel sacramento della confessione ed in quello della
comunione. Prega più che puoi Bruno mio, chiedi le grazie per il cuore e per la
mente, tutto il bene necessario e l'amore forte e generoso per amare e non
temere il nemico dell'anima; riconoscere, diffidando sempre, la sua voce e le
sue lusinghe.
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Prega per conoscere tutto il pericolo che ti può macchiare l'anima. Leggi,
prima di tutto, tutte le parole di Gesù nei libricini che ti ho spedito il mese
scorso. La tua mamma dopo lunghi anni di esperienza personale ti sa solo senza
facili ed efficaci insegnamenti che i tuoi compagni hanno e possono mettere in
pratica, sotto una guida, sino a che si troveranno una dote spirituale matura,
per la fortuna d'avere i genitori vicino. Ma non temere se conserverai queste
pagine. Anche la tua via è limpida. Se sei veramente cristiano e cattolico
sarai forte. Ti raccomando la santa messa e di considerarla sempre quando hai
la libertà di poterla sentire come il sole di tutti gli atti di pieta' la
preghiera delle preghiere, perché è Gesù che adora il padre celeste e con lui
possiamo molto. Nella via della fede le stesse cose danno un nutrimento sempre
nuovo. La mia lettera è più lunga per te quest'anno perché viviamo giorni
difficili. Baciami e prega anche per me. Baci affettuosissimi con la mia
benedizione. Finito di leggergli l'ultima lettera, osservò il figlio, aveva una
espressione per niente buona in viso, chinata la testa rimase in attesa.
"Mamma, ti rendi conto delle castronerie che dici, sii sincera...ti sei
fatto aiutare da qualche prete nevvero ?, tanto valeva che mi mandassi le
confessioni di Sant'Agostino". Prese una lettera la porse alla madre
"tieni questa la devi affrancare e spedire", la madre prese la busta,
la guardò doveva trattarsi di qualche suo commilitone, Bruno continuò: "La
Vicenzina viene sempre qui ?", si riferiva alla donna di servizio, la
madre annui, "mamma la devi licenziare, capisci nessuno
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deve sapere che sono tornato, nessuno sino a che la guerra non finisce".
La madre annui di nuovo, aveva ragione questo era il lato da curare di più, lo
rassicurò parlandogli tenendo le mani giunte, "Bruno, ho saputo che in
qualche casa hanno fatto delle perquisizioni in cerca di giovani renitenti, e
questo in seguito a delazioni di qualcuno, hanno mandato a morte dei ragazzi
per un pezzo di pane", disse preoccupata. "Mamma a me non mi
scoveranno, ma dipende tutto da te, ricordalo, non devi parlare di me con
nessuno, la botola in bagno c'è sempre ?" la madre annui "allora
siamo a cavallo, a quelli penso io, il giorno dopo la fine di questa guerra del
cazzo". La madre non rispose, alzatasi dalla sedia e avvicinatasi al letto
gli sistemò le coperte dicendogli: "Ringraziamo il Signore per il tuo
ritorno, tante madri qui intorno piangono i loro figli morti", Bruno
s'alterò "Stupida, vecchia stupida cosa ringrazi, sai quanta gente ho
ucciso con questa", alzatosi e diressosi verso la bisaccia, ne trasse
fuori la mannaia e gliela mostrò, quindi fece le mosse simulando i modi con cui
aveva ucciso tanta gente da perderne il conto. La madre indietreggiò
esterrefatta, Bruno preso da una improvvisa alterazione nervosa continuò a
parlarle: "Dov'ero io nella sacca di Stalingrado stai tranquilla... non
c'era nessun Dio, poi che affidamento puoi fare su chi non si fa rivedere da
duemila anni. Mammetta cara ho veduto giovani appena affacciatisi alla vita
adulta, e meno giovani taluni forse consapevoli ma impotenti, morire, sono
morti a milioni, in modo atroce, in modo stupido, Io ho contribuito a questo
sterminio capisci, Io il tuo buon figliolo di cui facevi dire messa tutte le domeniche
nevvero, per tutto questo devo ringraziare questi stronzi che ci governano,
questi fascisti di merda, sapevi mammina cara che in guerra, in battaglia erano
i più cacasotto e imboscati di tutti".
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POVERO
PERSEO |
Stette in silenzio alcuni secondi, poi rialzatosi dal letto si levò il pigiama
prese la sua mannaia, afferrato il gatto per la collottola lo portò in bagno
qui con un colpo ben assestato gli staccò la testa dal collo. La madre questa
volta non seppe trattenere le lacrime, Bruno le parlò: "piantala, stai
zitta, vecchia stupida, capisci che lui inconsapevolmente avrebbe tradito la
mia presenza", la madre non riusciva a frenare il suo pianto, Bruno prese
un asciugamano e vi arrotolò dentro il povero Perseo, prese un'altro
asciugamano per avvolgervi la mannaia, porse il tutto alla madre e parlandogli
sottovoce dentro un orecchio le disse "Mamma esci e fai sparire questi
fagotti". La madre sconvolta uscì, il cadavere del gatto lo lasciò in
mezzo alla strada, scomparve nel corso della notte, il fagotto con dentro la
mannaia lo nascose nel suo solaio, infilandolo tra il muro e un grosso baule.
Mentre scendeva dalle scale per ritornare in casa ripensò alle cose terribili
dette da Bruno, s'aspettava quella collera, era umana, comprensibile, lo sfogo
di un povero ragazzo frastornato da eventi più grandi di lui, ora occorreva
quietarlo. Rientrata in casa si diresse subito nella stanza da letto del figlio
e dimentica di tutto quello che era successo si sedette vicino al figlio,
rimasero uno vicino all'altro in silenzio per qualche tempo, la madre provò
ancora a giustificarlo parlandogli con voce querula e bassa: "Bruno, dovevi
obbedire agli ordini, in guerra e così", "Cretina.... e anche colpa
vostra se ho fatto quello che ho fatto, perché invece di obbligarmi ad andare a
fare il chierichetto da quel tuo prete toccacazzi del cavolo, non mi avete mai
detto come veramente erano le cose,
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sono dovuto andare soldato per sapere che Matteotti... quel deputato.. fu
accoppato dalle squadracce fasciste". La madre chinò di nuovo la testa,
"Vedi Bruno tuo padre diceva sempre che tu dovevi stare lontano da queste
cose e d'altronde anche noi non sapevamo poi molto di più, i giornali scrivono
solo quello che è permesso loro, per il resto girava qualche voce e
basta". "Sei stupida, capisci che in questo modo mi avete privato di
un minimo di maturità civile, al contrario di tanti miei coetanei di questa
Torino che saranno invece fieri finita la guerra di vantarsi del loro
antifascismo. Voi mi avete mandato da quei ostri preti i quali si sono guardati
bene dal farmi leggere ad esempio la dichiarazione d'indipendenza degli Stati
Uniti, oppure di dirmi che in Russia i Romanov erano stati tutti trucidati, mi
hanno invece fatto mandare a memoria tutto il latino e greco possibile ed
immaginabile, specie quando hanno notato la mia attitudine nel mandar giù a
memoria quei loro libri del cazzo".
Bruno si sentiva smarrito, quel momento di tranquillità interiore vissuto pochi minuti prima, era sparita, cercò nella sua mente di ritrovarla, inutilmente, comprese di non poter pretendere di cancellare con un colpo di spugna, quella nuova personalità maturatagli in quelle stramaledette circostanze.
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La madre insistette nei suoi sforzi per calmarlo "Bruno adesso non ci
pensare sei qui, questo è ciò che conta lascia stare il resto". "Ma
che lascia stare, Io ti chiedo mamma perché non sono con gli altri, con i
partigiani perché mi sono trovato impastoiato con gente criminale, se perderemo
la guerra come oramai pare, quelli verranno a cercarmi per farmela pagare...
capisci....no questo non credo...ma..sarò segnato capisci, quindi nessuno deve
sapere dove ho combattuto, anzi sarebbe cosa buona sparire per sempre da questa
parte dell'Italia". "Bruno, so di alcuni genitori che hanno fatto
fuggire i loro figlioli in Svizzera". "Mamma, qui sono al sicuro,
questa casa diventerà la mia fortezza sino alla fine della guerra; faremo carte
false, con la fame che esiste in giro non sarà difficile vedrai". Infatti
nei giorni successivi rimase tutto immerso in questi pensieri, tanto che fu
preso da un gran febbrone, rimase a letto ammalato per un mese circa diceva
alla madre che abitavano in una casa di merda, aveva attraversato la steppa
russa in pieno inverno senza buscarsi neppure un raffreddore ed ora era bastato
un giorno per prendersi tutti i mali della terra, la madre lo curò con tisane e
impacchi d'aceto, alcune volte sembrava preso dal delirio credeva che la stanza
fosse piena di gente, gridava alla madre di cacciare via tutti. La brava donna
gli stette vicino con tutto il suo amore di madre giorno e notte dormiva sullo
stuoino ai piedi del letto e quando la febbre
si faceva intensa, dormiva abbracciato a lui per riscaldarlo meglio.
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Nei giorni successivi al ritorno del figlio la madre mise in atto tutti gli
accorgimenti necessari per celare la presenza del figlio in casa, occorreva la
massima accortezza, il pericolo di una delazione era in quei tristi giorni
fortissimo, doveva preservare in tutti i modi quel suo figliolo dai pericoli
esterni. Lo convinse a riprendere gli studi d'ingegneria che aveva interrotti
quando si era arruolato, gli procurò libri e dispense, per giustificare tutte
queste cose che andava procurandosi parlando in giro disse che il figlio forse
sarebbe tornato in licenza entro pochi giorni, tutta contenta che il suo
figliolo avesse deciso di trascorrere la sua clandestinità negli studi trovando
un modo proficuo di stare occupato, altrimenti poteva impazzire, eh si! stare
tutto il giorno in casa ad oziare, poteva alterare il suo equilibrio psichico
tanto scosso per la guerra fin lì combattuta. In effetti viveva come un
recluso, raramente usciva dalla sua stanza, a volte avvicinandosi alla finestra
scrutava attraverso le imposte socchiuse il raro viavai delle persone per la
via. Passava il tempo nel leopardiano "studio disperato", oppure
rimaneva delle ore sdraiato sul letto a rimirare il soffitto, oltre la cucina
ignorò il resto dell'appartamento, che piccolo non era di certo. Le maggiori
precauzioni occorreva prenderle nel fare la spesa, in quanto la quantità di
cibo acquistato sia pure al mercato nero poteva insospettire qualche delatore,
La madre conosciuta nel quartiere per il suo spirito caritatevole, non destava
sospetti, sapevano come a volte si desse da fare verso alcune famiglie
maggiormente disagiate.
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Passati alcuni giorni dal ritorno di Bruno, La madre andò a far visita ad una
sua cara amica, si conoscevano dai tempi del liceo, si erano date appuntamento
per quel pomeriggio, s'incontravano di tanto in tanto, non per celiare
inutilmente, ma per scambiarsi vere notizie da salotto roba da far sobbalzare
poltrone e divani. L'amica l'accolse nel suo salotto buono le offrì del Rosolio
accompagnato da biscotti fatti in casa. La madre di Bruno, accostandosi
all'amica le parlò a voce bassa: "È tornato". "Ringraziamo
Dio", rispose l'amica e continuò: "Sta bene", "Si, ma è
tanto scosso, ho il timore che lo scoprano, specie adesso che il governo ha
emanato quel bando di arruolamento forzato. Devi sapere che si nasconde, non
vuol far sapere a nessuno del suo ritorno, in qualsiasi altra situazione
sarebbe ingenuo nascondersi in casa". L'amica prendendole le mani rispose:
"Penso anch'io che sia il posto migliore, i Ferreri per quel poco che
oramai i nomi contano, sono ancora molto considerati qui in città". La
madre annui, La visita alla sua amica non aveva l'unico scopo di scambiare due
parole, suo marito era il primo gerarca della città, riprese il discorso:
"Occorre proteggerlo, ci sono questi delatori, gente infame senza morale
possono togliermelo per una biola". "Conta senz'altro su di me, mi
raccomando cara fai pieno affidamento su di me", "Sai il palazzo è
sicuro, il portiere non si è accorto di nulla" "Stai attenta allo
scarico, alla spesa, anzi... sarà bene che venga io a trovarti in modo da farti
veramente sembrare sola", "Grazie dei tuoi
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consigli, contavo molto sul tuo aiuto", "Cara, cara tientelo ben
stretto, hai avuto fortuna, qui molte madri piangono i loro figli morti",
"Oh quant'è cambiato, ma molto", "L'esperienza è traumatica per
tutti, ora devi stargli vicino vedrai che tornerà quello di prima",
"È diventato cinico, beffardo, violento, ma violento", qui le
uscirono abbondanti le lacrime da tanto tempo tenute dentro, l'amica
l'abbracciò confortandola "Vedrai cambierà, la guerra non durerà ancora a
lungo, dopo le cose cambieranno completamente, ti ricordi nel diciotto, quando
saltavamo di gioia e felicità in Piazza Castello, all'annuncio della
vittoria". "Il mio Bruno, non sono capace di darmi una spiegazione
valida, anche prima di partire per la guerra, non era molto socievole, spesso
mostrava un'aria di superiorità verso gli altri a parer mio ingiustificata,
cercavo di cambiare questo aspetto secondo me deleterio per la maturità di un
ragazzo, la guerra l'ha rovinato tutto, ho paura che non sarà mai più, mai più
troverà fuori di se stesso negl'altri quel reciproco scambio che arricchisce la
nostra personalità e ci rende compartecipi nella società". Lasciata
l'amica, ritornò a casa confortata e più sicura di come il suo affetto ed il
tempo avrebbero guarito il suo Bruno dalle brutte cicatrici psicologiche dovute
al periodo trascorso sotto le armi.
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AUTOMI COLOR GRIGIO ANTRACITE
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Le cose invece non andarono nel modo desiderato, alcuni mesi dopo il suo
ritorno iniziarono i suoi incubi notturni, personaggi strani, dapprima vaghi,
via via sempre più delineati tormentavano il suo sonno, sognava gli
"Automi", esseri color grigio antracite, con lineamenti umani, ma
privi degli occhi e delle labbra. essi o lo impegnavano in violenti
combattimenti corpo a corpo, oppure rimanevano ritti immobili e silenziosi in
qualche angolo della casa. Questi incubi lo perseguitarono per tutta la vita senza
requie, non ne parlò con nessuno, tenne tutto dentro di se, li considerava come
la manifestazione inconscia di un disturbo mentale di natura sconosciuta. Bruno
viveva una vita normale durante il giorno, invece nel sonno notturno era
tormentato da incubi che con il tempo diventarono sempre più estranei alla sua
personalità, al suo vivere quotidiano. A volte per qualche tempo si attenuavano
un poco o cambiavano, per esempio sino verso gli anni sessanta sognava spesso
un soldato russo con la spalla squarciata e senza occhi che zoppicando
nell'immensa steppa russa, camminava ripercorrendo i luoghi che lui aveva
attraversato per tornare a casa seguendo le sue orme ancora persistenti nel
terreno nonostante il trascorrere delle stagioni.
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L'incubo per fortuna scomparve dai suoi sogni, quando il soldato era giunto ad
Odessa; resosi conto di ciò, riflesse sorridendo di come la steppa russa in
inverno fosse dura da percorrere anche per un fantasma notturno. Gli automi
persistevano, si dannava per questo in quanto era qualcosa che sfuggiva al suo
autocontrollo. Non provava rimorso per il suo passato militare, cosciente di
essere stato indotto ad un certo comportamento in guerra, tramite un
particolare addestramento sia militare che psicologico.
Certo lo avevano indottrinato proprio ben bene, appena ventenne, privo di una coscienza politica, di valori etici, "Quelli" gli avevano fatto credere che i suoi obiettivi ideali coincidevano con i loro, di conseguenza un certo comportamento militare legato ad una obbedienza cieca ed assoluta, gli avrebbe offerto l'optimum per realizzarsi. Insomma il militarismo allora imperante con la sua propaganda martellante gli avevano fatto credere dell'esistenza di pericoli irreali, di nemici irreali per la patria. Il giudizio critico gli aveva fatto difetto, lo riconosceva l'educazione ricevuta aveva contribuito a questa carenza intellettuale, ma come mai altri invece, non erano così come mai lui tanto "specializzato" ed esperto sui campi di battaglia si era lasciato rincretinire e accecare dalla propaganda.
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Altri, si era reso conto avevano indipendenza di giudizio, mica gente istruita,
ora erano tutti morti, chi poteva riconoscerlo, nessuno, e sotto questo aspetto
si sentiva tranquillo, d'altronde viveva in una città, che per il suo carattere
era poco incline ai pettegolezzi.
Tutto questo aveva contribuito nella formazione del suo carattere, gli venne in mente un episodio avvenuto sul fronte russo nell'estate del 1942; fu convocato dal tenente colonnello insieme a tutti gli altri ufficiali e sottufficiali del battaglione, questi disse loro chiaro e tondo cosa stavano combinando i tedeschi riguardo ai prigionieri russi e agli ebrei convogliati nelle retrovie. Uno sterminio organizzato scientificamente in appositi lager. Bruno non credette alle parole del comandante, considerava il popolo tedesco, il suo esercito, il simbolo massimo dell'etica sociale e politica di tutta la storia umana.
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Non immaginava assolutamente di essere un oggetto impotente manipolato dalle
circostanze, lui che oltretutto aveva fatto anche gli studi liceali. Ma come !,
rifletteva oggi, allora si rese necessario un evento esterno, la cattura e la
successiva fuga, perché la ragione una pallida ragione ancora in embrione
dentro di se si riaffacciasse alla sua mente riprendendo in modo corretto il
processo di sviluppo della sua personalità, l'affiorare di una nuova coscienza,
la quale facendolo uscire dagli schemi preconfezionati dell'ideologia del
passato regime lo resero cosciente dell'orrore della guerra, con i suoi morti,
le sue violenze, inducendolo infine a fuggire e desiderare il ritorno a casa.
Trovò singolare il modo con cui dentro di sé traeva la forza di resistere al
flagello del gelo, delle tormente, dei cecchini, e di andare sempre oltre
sempre fisicamente integro e più forte di tutti gli altri, la forza veniva
semplicemente dall'immagine del suo letto pronto con il pigiama ben ordinato
sulla sponda, questo gli dava tanta forza più di qualsiasi altra considerazione
esistenziale. Riguardo i suoi incubi, si fece con il tempo un convincimento:
essi erano una conseguenza dell'intensità esistenziale vissuta nel periodo
bellico. Finché essi persistevano era segno di un disturbo mentale presente
nella sua personalità, per cui doveva essere accorto nel relazionarsi con gli
altri, nella costruzione del suo pensiero logico, di farsi aiutare da uno
psichiatra come era in voga in America non era proprio il caso.
- 105 -
L'OCCASIONE |
Venne l'8 settembre, La madre di Bruno si trovava in strada quando si diffuse
la voce dell'armistizio, tutti dicevano che la guerra era finita, qualcuno
saltava di gioia, lei raccolse tutte le voci su quell'avvenimento straordinario
s'incamminò con passo svelto e il cuore in tumulto per comunicare la notizia al
figlio, finalmente quella prigionia volontaria terminava, ripensava
all'angoscia dei primi giorni dopo il ritorno del suo Bruno, aveva paura di
uscire, di parlare, di tutto, l'apprensione le cresceva di giorno in giorno,
c'era voluta tutta la buona volontà del figlio a convincerla che era possibile
nella loro situazione avere proprio in quella casa il posto da considerare come
il miglior rifugio possibile. Ora tutto questo era finito, poteva di nuovo
uscire, vivere una vita normale. Entrò dunque in casa, corse in camera del
figlio, lo vide chino su dei libri, stava studiando, studiare era il suo unico
passatempo. "Bruno, Bruno è finita" Lui alzati gli occhi verso la
madre, vedendola giuliva, s'accorò, chissà cosa le avevano raccontato povera
ingenua, alzatosi da letto chiese: "Cosa che c'è Mamma ?".
- 106 -
"È finita la guerra, la radio ha comunicato che è stato chiesto
l'armistizio" Bruno la guardò sorrise amaramente, si diresse verso la
finestra, senza guardarla le parlò: "mamma hai visto se ci sono dei tedeschi
in giro ?", "si è piena la città, ma se ne andranno oramai",
Bruno s'infuriò e avvicinandosi a lei parlandogli con rabbia vicino
all'orecchio a voce bassa la rimproverò aspramente "Mamma sei sempre la
povera scema che sei sempre stata, quelli non andranno via sono venuti per
restare, per cacciarli ci vogliono le cannonate, e noi non abbiamo
cannoni". La madre s'accasciò sulla sedia "Hai ragione, sono la
solita grulla, oh come mi ero illusa, illusa come sempre", alzatasi dalla
sedia uscì dalla stanza e si diresse in cucina a preparare il pranzo e a
cavarsi due gocce d'acqua dagli occhi di nascosto dal figlio che proprio non
voleva vederla piangere. Bruno conoscendo bene il potenziale militare dei
tedeschi si rendeva conto che il loro declino era ancora di là da venire,
reputava attendibile un attesa di almeno due danni per vedere la fine del
conflitto.
- 107 -
(n.d.a – sic)
Certo ora le cose cambiavano per tutti, lui doveva essere maggiormente accorto, e probabilmente la guerriglia partigiana nei prossimi mesi era destinata a crescere d'importanza. Durante le ultime fasi del suo rientro in Italia aveva sentito varie voci affermare che sui monti andavano formandosi dei piccoli gruppi di resistenza formati da antifascisti, militari disertori, per cui entro breve tempo si sarebbero formati gruppi di partigiani. Dopo gli ultimi avvenimenti pensava che aggregarsi a qualche banda partigiana per partecipare alla resistenza rappresentava per lui un occasione d'oro per riscattarsi da quella sua partecipazione tanto forte per quanto inconsapevole alla guerra d'aggressione. Poteva alla fine della guerra vantarsi di questa sua partecipazione, cosicché si sarebbe compiuto dentro di lui quel processo di maturazione civile e recupero dei valori etici propri dell'uomo, la giovane età, il riscatto nella guerra partigiana avrebbero certo riabilitato prima di tutto la sua coscienza morale, riscattato la sua dignità etica. Si ora comprendeva che il passo era necessario, contento di questa sua decisione, occorreva pensare all'altro problema, la mamma! doveva informarla quando era sulla porta di casa e trattarla bruscamente, altrimenti avrebbe iniziato con tutti quei suoi lamenti e pianti. Meglio era prepararsi lo stretto necessario e andarsene quando lei usciva per le sue faccende, ecco questa era la soluzione migliore, le avrebbe lasciato due righe di spiegazione.
- 107 bis-
La mattina dopo appena la madre uscì per le faccende quotidiane, Bruno messe in
un sacco le poche cose che gli necessitavano, scrisse due righe di spiegazioni
su di una pagina di quaderno lasciandolo aperto sopra il tavolo della cucina,
si diresse verso la porta di casa, solo qui quando ebbe poggiato la mano sulla
maniglia comprese che quella che andava a percorrere non era la sua strada,
come non era la sua strada quella che lo aveva portato dentro Stalingrado,
perché, perché si ripeteva Bruno guardando angosciato la porta di casa, essa
ora rappresentava un muro invalicabile, non era vigliaccheria o pigrizia
sopraggiunta, un nulla dentro lo aveva fermato sulla porta di casa, tutti i
pensieri di quei giorni non avevano fondamenta dentro di lui, ecco com'era la
sua personalità incapace di vita propria, ma pronta a far propri i suggerimenti
altrui, una macchina, una buona macchina, un conformista questo era. Ritornato
in camera disfece tutto e sdraiatosi sul letto a rimirare il bel soffitto
ricamato comprese come dovesse ancora percorrere tanta strada dentro la sua
coscienza prima di riprovare ad aprire la porta di casa.
- 108 -
IL LUPO...PERDE IL PELO MA NON
IL VIZIO |
Furono ventisei i mesi trascorsi da recluso nella propria casa senza uscire,
accudito amorevolmente dalla madre. Vivevano al secondo piano di un palazzo
signorile, unico vicino era uno studio notarile trasferitosi da poco, grazie ad
alcune conoscenze riuscirono a far figurare Bruno come disperso, trascorreva le
giornate sempre nello stesso modo alternandosi tra lo studio e l'osservazione
di quanto avveniva in strada da dietro le imposte. La tensione esistenziale di
quando si aggirava dentro gli edifici semidistrutti di Stalingrado era sempre
presente in lui, conosceva "dal di dentro" il significato
dell'aspettazione di come questa virtù, gli avesse salvato la vita in molte
occasioni. Non osservava la strada in modo distratto ma con la massima
concentrazione, il pericolo di una delazione, virtù di quei giorni, era
concreto ed attuale. Una mattina del gennaio 1945, osservando la strada
attraverso le imposte socchiuse della finestra del salotto vide un ombra scura
stagliarsi sul marciapiede di fronte, proprio sotto un lampione spento per
l'oscuramento in vigore, si trattava di un rastrellatore, il "Picio"
stava firmando la sua condanna a morte, per essere da solo, l'unica spiegazione
possibile era quella di un'intuizione mattutina, dato che con i rastrellamenti,
le perquisizioni, ed anche le delazioni avevano oramai come si dice
"raschiato il fondo" cercavano in quei posti ove sulla carta
risultavano i morti e i dispersi di guerra se puta caso non v'era qualche
"vivo" nascosto tra le mura domestiche.
- 109 -
Bruno comprese subito il pericolo, si spogliò rimanendo completamente nudo,
quello stronzo non doveva arrivare vivo al comando repubblichino di zona.
Uscito di casa a grandi passi gli si diresse contro, questi preso dallo
sconcerto nel vedere un uomo nudo venirgli incontro, quando mise mano alla
fondina per estrarre la pistola era troppo tardi, Bruno non aveva perso le sue
"qualità", L'uccise spaccandogli l'osso del collo, gli tolse la
pistola, e caricandoselo sulle spalle lo trasportò per circa cento di metri, in
uno slargo dove v'erano delle macerie gettatolo in terra lo ricoperse alla
meglio con detriti, ripercorrendo la strada per rientrare velocemente in casa
gli parve sentire un bisbiglio come un sussurro fermatosi allarmato, qualcuno
forse aveva visto, rimase fermo sul marciapiedi incurante del freddo, con le
orecchie tese, girando la testa intorno, sentì come un sussurro, allentata un
poco la tensione in quanto non c'era pericolo immediato, comprese che qualcuno
aveva visto e stava parlandogli anche se non riusciva ad individuarlo, riprese
a camminare concentrandosi con l'udito, non c'erano dubbi qualcuno stava
parlandogli, questa volta comprese bene le parole, "Bravo, hai liberato il
quartiere da quell'essere immondo, bravo". Bruno rinfrancato da quel
sussurro, riflesse, come l'occasione di un certo riscatto gli si era parata
davanti inaspettata, Questi pensieri gli furono di gran conforto e sollievo per
i giorni di reclusione forzata ancora da trascorrere in casa, probabilmente non
molti ancora a sentire sua madre, ripresosi tornò tranquillamente a casa.
- 110 -
Venne il 25 Aprile, la fine della guerra, quel giorno tutti facevano festa per
le strade di Torino, la primavera inondava la città e i cuori di tutti, Bruno
non si lasciò trasportare dal momento, rimase ancorato alla finestra da dove
dietro le imposte osservava il viavai delle persone, alla madre che a volte
speranzosa s'affacciava alla porta della sua camera ingiunse di ritornare in
cucina, rimase in casa, nascosto ancora un mese, infine una mattina sul presto
si decise ad uscire, appena in strada, dovette appoggiarsi ad un lampione per
un improvviso capogiro, ripresosi prese a camminare con passo lento ed incerto
lungo il marciapiede, un negoziante riconosciutolo lo fermò e tutto sorridente
si felicitò nel rivederlo: "Signor Bruno, che piacere rivederla",
Bruno fermandosi sorpreso per essere stato riconosciuto intavolò due parole con
lui informandosi circa gli avvenimenti riguardanti il quartiere, dopo poco si
salutarono e Bruno riprese il suo vagare, abbastanza stordito da quella libertà
improvvisa, girovagava per le strade senza una meta precisa. La madre passata
qualche ora e non vedendolo tornare scese in strada a cercarlo, era oramai
pomeriggio inoltrato quando lo scorse nei pressi della Mole Antonelliana, lo
raggiunse e presolo per un braccio ritornarono in silenzio verso casa.
Questione di qualche giorno e ritornò quello di sempre, riprese a frequentare
il politecnico e in breve il suo passato divenne sempre più remoto, tanto da
meravigliarsi spesso di averlo vissuto, certo c'erano gli incubi notturni a
ricordargli che gli ultimi quattro anni non li aveva trascorsi in villeggiatura
a Rapallo. La madre aveva intuito qualcosa, lo vedeva agitarsi nel sonno, a
volte si svegliava all'improvviso ansimando, risveglio sistematico nei
combattimenti con gli automi, dove soccombeva sempre, come succede in ogni buon
incubo che si rispetti non prima di aver lottato lungamente e tenacemente
contro di loro. Laurearsi ecco la direttiva primaria ove dirigere tutto il suo
impegno, s'immerse negli studi disinteressandosi di tutto il resto. La sua vita
di società era inesistente, le amicizie nulle, solo a volte dietro insistenza
della madre andava con lei a teatro, unico passatempo era di seguire sul
giornale le vicende calcistiche del "Grande Torino" senza peraltro
andare mai allo stadio almeno sino agli esami di laurea. Non partecipò mai e
mai s'interessò di politica, era una norma di prudenza a cui s'attenne per
tutta la vita. è da considerare che la ripulsa per il proprio passato militare,
non gli venne tanto per un ripensamento razionale, quanto per un impulso
inconscio, insomma non affrontò mai se stesso riguardo al proprio passato.
- 111 -
AH...
DOTTÒ |
La madre di ritorno dallo studio del dentista ove aveva fissato un appuntamento
per il figlio, volle fermarsi un momento alla guardiola del portiere per vedere
s'era arrivata della posta, in effetti c'era una lettera, sulla busta vide
impressa con un timbro un marchio aziendale, tutta contenta salì velocemente le
scale per comunicare al suo Bruno le novità. "Bruno è arrivata una lettera
per te, ho preso anche l'appuntamento è per oggi alle tre". Bruno
indossato l'imperniabile e presa la lettera disse alla madre: "Mamma esco
adesso, ho da fare delle faccende all'università, mangerò fuori poi vado dal
dentista". Entrò in un bar, sedette al tavolino, e con cura aprì la
lettera, lesse il contenuto, rimise il tutto in tasca, bevve il caffè in fretta
e uscito sulla strada una valanga di felicità lo prese tutto, quella lettera
rappresentava un successo personale. Finalmente questa benedetta laurea in
Ingegneria Civile era servita a qualcosa, l'indomani iniziava il suo lavoro in
fabbrica presso la Direzione Impianti, non nel senso di aver fatto anticamera
per trovare il posto giusto, anzi l'invito a presentarsi in azienda per
valutare una proposta d'assunzione gli era stato rivolto ancor prima di
discutere la tesi di laurea, ma in quanto non voleva continuare gli studi,
desiderava cambiare città, Milano, Roma, la madre aveva sudato le proverbiali
sette camicie per convincerlo a restare,
- 112 -
convincerlo a continuare gli studi, convincerlo a considerarsi una persona
normale. Ora si sentiva felice e anche sereno, per cui affrontò nel migliore
dei modi l'appuntamento con il Dentista per tentare di salvare un molare che
gli doleva da qualche giorno. Accomodatosi nel salottino d'attesa sfogliava
distrattamente un settimanale quando la sua attenzione si soffermò sulla
riproduzione fotografica di uno scritto, probabilmente una lettera che occupava
l'intera pagina. Osservò la lettera riprodotta completamente assorto, quella
scrittura la ricordava, quei caratteri abbastanza piccoli, lo stile, rotondino
classico li ricordava in modo vivo, aveva visto quella scrittura in qualche
parte, e il timbro in alto era quello un particolare che gli era rimasto impresso,
incuriosito lesse tutto l'articolo. La voce dell'infermiera dello studio lo
distolse dalle riflessioni su cui si era lasciato immergere, lo stava
invitando: "Prego Ingegnere s'accomodi", alzandosi rassegnato entrò
nello studio del Dentista. Appena terminata la seduta si diresse verso
un'edicola e comprò il settimanale in questione. tutto di quel giorno maledetto
gli rinvenne in mente molto bene, la stranezza di trovare in quel posto un
Quaderno scritto in italiano. Ricordava come lo raccolse e lesse nel giorno più
drammatico della sua vita.
- 113 -
Nell'articolo era descritto il modo a dir poco rocambolesco di come questi
Quaderni furono salvati, si parlava anche dell'autore, un noto personaggio
politico morto per malattia nel 1937. Bruno apprendeva per la prima volta tutte
queste notizie dettagliatamente, in precedenza riguardo alle vicissitudini
dell'uomo politico in questione sapeva poco o nulla. Nell'articolo era altresì
riportata la notizia della prossima pubblicazione dei Quaderni da parte di una
nota casa editrice della città. Lesse infine come si svolsero le esequie: Il
corpo fu cremato e le ceneri inumate al cimitero del Verano a Roma, per essere
traslate dopo la liberazione nel vicino cimitero degli Inglesi. Il feretro fu
seguito da un corto corteo di appena due persone. Tutta la sua attenzione si
concentrò nel ricordare esattamente quanto lesse allora su quel quaderno,
l'anno: 1940!, la memoria l'aiutava con le immagini viste allora, la scritta in
inglese "I presume", frase citata da un esploratore del continente
nero vissuto nel secolo scorso, "Livingstone", ecco il particolare
che aveva aiutato la sua mente a memorizzare il tutto. Gli rinvenne nella
memoria il contenuto delle poche righe lette, tutto questo lo sconcertava,
troppe questioni, probabilmente si trattava solo di coincidenze, spettacolari,
come lo sono i fuochi d'artificio ma niente di più, approfondire l'argomento
era impensabile, sarebbe stato in con tradizione con tutti gli sforzi compiuti
per dimenticare ma soprattutto far dimenticare come lui avesse partecipato al
conflitto con quel ruolo specifico.
- 114 -
D'altronde non era il caso di soddisfare queste curiosità, anche solo
avvicinarsi all'ambiente comunista poteva essere molto pericoloso per la sua
futura carriera, e anche fosse! che riscontri poteva far valere a supporto
della sua testimonianza. Questo comportamento si rifletteva anche nei rapporti
con gli altri, si relazionava bene con i colleghi ma non approfondiva mai i
rapporti, manteneva un atteggiamento controllato e di distanza. Il nostro Bruno
benché giovane e gagliardo iniziava il suo lavoro con tutti questi problemi
personali sul groppone. La sua attività consisteva nel riordinare i disegni di
tutti i fabbricati aziendali, di alcuni occorreva rifare i disegni in quanto
mancanti. Un ingegnere gli parlò con entusiasmo della tecnica da lui impiegata
nella ricostruzione dei disegni. "Vedi Bruno anziché fare l'archeologo
sono andato all'ufficio personale e mi sono fatto dare una lista degli
operatori e capi squadra addetti alla manutenzione degli impianti nel periodo anteguerra.
Cosicché le loro indicazioni mi sono ritornate molto utili nella mia
ricostruzione dei disegni, questo è il mio suggerimento e vedrai quanto
risparmierai in tempo e fatica". Seguì l'indicazione datagli e tramite
l'ufficio personale individuò un operaio, oramai pensionato, le cui
caratteristiche potevano tornare utili per risolvere alcuni problemi
riguardanti una palazzina, di cui non era riuscito a rintracciare nessuna
documentazione scritta.
- 115 -
Una domenica si decise ad andare a trovare l'operaio Cesare, conosciuto da
tutti con il nome di Cesarino, in quanto i primi anni in fabbrica li passò
lavorando a fianco del padre che era solito usare quel diminutivo con lui.
Inoltre era piccolo di statura e magro come un chiodo. Era andato in pensione
l'anno passato e attualmente viveva in un piccolo paese del Canavese dal nome
tenebroso: "Bosconero", impiegò diverso tempo per rintracciarlo. Quando
infine trovatolo chiese se fosse lui il Cesarino, rispose: "propri
mi". Questi, tutto contento per quella visita tanto importante lo invitò
in casa e preso un bottiglione di Barbera ne versò un bel bicchiere al suo
illustre ospite, Bruno assaggiatolo gli fece i complimenti, il vino era proprio
buono e genuino, l'assenza di "fiori" poi ne comprovava la cura e
l'attenzione nella preparazione, si scambiarono ancora un paio di bicchieri,
gustandosi il vino, dopodiché Bruno parlò del suo problema, e se era possibile
per lui aiutarlo riguardo a quel fabbricato vicino al cancello d'ingresso della
fabbrica. Cesarino guardandolo con aria benevola e timida, gli fece pressappoco
il seguente discorso: "Ingegnere, la palazzina bianca noi operai la
chiamavamo "Verbotten", durante la guerra v'erano uffici
dell'esercito tedesco, finita la guerra noialtri abbiamo notato come la parte
retro sia sempre rimasta chiusa, solo ad avvicinarsi ci si prendeva
un’ammonizione scritta. Le posso solo affermare che là dentro nel "trenta"
c'erano alcuni uffici della direzione centrale, lì entravano solo quei
"signori" capisce, quando occorreva fare dei lavori veniva gente da
fuori, strano che a voi Ingegnere non abbiano detto nulla, forse perché siete
nuovo. Ho visto fare dei lavori sempre nel trenta anzi accadde dopo la
proclamazione dell’impero, parlavano di un rifugio antiaereo, sa per i
capoccioni". Si salutarono, Bruno risalito in macchina per ritornare a
casa. Riflettette strada facendo sul discorso di Cesarino; doveva senz'altro
ispezionare quella palazzina per farsene un’idea, e verificare di persona
eventuali ragioni del suo inutilizzo.
- 116 -
L'APPOSTAMENTO |
Il giorno successivo si mise ad osservare prima con "occhio bellico"
retaggio dell'esperienza fatta in guerra, successivamente osservò con occhio
professionale il fabbricato in questione, si vedeva chiaramente come la parte
retro della palazzina fosse in disuso da qualche tempo, dalle sue indagini i
locali annessi non erano in carico, e né occupati da nessun ufficio aziendale
erano semplicemente a disposizione esclusiva della "Direzione
Aziendale". Riandava con la memoria al fronte russo, dove le poche case
ancora intatte si mostravano in apparenza invitanti come rifugio per la notte,
rivelandosi spesso trappole mortali per le insidie che celavano, quanti erano
saltati in aria nell'aprire una porta, nell'entrare in una stanza, erano tempi
quelli dove la lotta per la sopravvivenza includeva anche una dose non
indifferente di culo, commilitoni dei più sagaci ed esperti non l'avevano fatta
franca in quell'inferno che era stata la battaglia di Stalingrado. Ripensò a
tutte le precauzioni prese appena rientrato in Italia per far passare
inosservato sia il suo rientro alquanto rocambolesco dal fronte russo. Sua
madre si era da fare nel cancellare per quanto possibile le tracce relative
alla sua avventura militare. Per queste ragioni nessuno conosceva il suo
passato militare né dove aveva combattuto, un atteggiamento comune a molti
reduci, forse rispetto ad altri usava maggiore circospezione.
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D'altronde nell'azienda il lavoro del suo ufficio aveva poco o nulla a che
vedere direttamente con la produzione, i suoi contatti con l'ambiente operaio
erano in sostanza nulli, lui li considerava "automi grigi" da evitare
con ogni cura. Conosceva bene le loro condizioni di lavoro, spesso nei vari
meeting aziendali aveva fatto presente insieme con altri colleghi come
situazioni ambientali di quel tipo non potessero durare nel tempo. L'imperativo
aziendale proposto con vigore dall'amministratore delegato era quello di lottare
con ogni mezzo per mantenere lo status quo vigente nei reparti di produzione,
affermava l'amministratore delegato come la produttività al di fuori degli
studi di settore specifici non s'incrementasse con i "se" ed i
"ma", occorreva "Travaillare" fino alla rottura delle ossa,
per assicurare all'azienda ampie capacità d’autofinanziamento da reinvestire
per essere competitivi, un ingegnere progettista come lui assunto di fresco, in
vena di facezie faceva notare che data la bassa statura dell'italiano medio era
possibile costruire miniautomobili con bassi costi di produzione tale per cui
anche se le retribuzioni rimanevano basse gli operai potevano ugualmente
acquistare tali macchine.
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Nei giorni successivi si piazzò in un ufficio vuoto vicino alla palazzina in
questione, il suo incarico gli permetteva questa libertà d'azione. Portatosi
del lavoro da svolgere si mise in una posizione tale da poter osservare
tranquillamente l'ambiente circostante. Qualcosa accadde, una mattina vide il
"Professore" fermarsi con la macchina di fianco alla palazzina, ne
discese, avvicinatosi al portone con tutta tranquillità brandendo una grossa
chiave aprì ed entrò richiudendo il portone dietro di sé. Passata circa
mezz'ora Bruno lo vide riuscire dal portone, richiuderlo a chiave e risalire in
macchina allontanandosi in tutta tranquillità. Bruno osservandolo, ebbe
l'impressione che sorridesse, anzi gli parve ghignasse soddisfatto, sorpreso
dalla scenetta un pensiero gli balenò nella mente: "capperina la questione
va approfondita". Soddisfatto della scoperta fatta tramite un accorgimento
elementare, decise senz'altro di effettuare un sopralluogo nell’interno della
palazzina, con discrezione, senza dare troppo nell'occhio, ficcare il naso
nelle faccende direzionali poteva recare grosso pregiudizio per la sua
carriera, e anche per la sua vita, altro che vivere nascosti dentro casa,
occorreva scappare in Sud america, e di gran carriera.
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GUARDA CHI C'E'...NEH!? |
Colse l'occasione opportuna alcuni giorni dopo, in quanto il
"Professore" era partito per New York, una mattina si decise,
dotatosi di un passpartout, avvicinatosi non visto al portone della palazzina,
riuscito ad aprirlo senza difficoltà entrò. L'interno era vuoto, le imposte
tutte chiuse, l'ambiente, abbandonato da tempo, non pareva molto degradato, si,
c'era della polvere, era sicuramente passato molto tempo da quando queste
stanze erano occupate da uffici, guardando le pareti e il soffitto si ravvisava
una certa "gloria passata" vissuta dal salone. Avvicinatosi alle
imposte sbirciò fuori, non vide nessuno, tirata fuori dalla tasca del cappotto
una torcia, l'accese, la diresse verso terra, si distinguevano delle orme, le
seguì arrivando ad una porta, anch'essa chiusa, apertala vide delle scale in
pietra del tipo a chiocciola, portavano verso il basso. Bruno iniziò a scendere
gli scalini, si sentiva teso, istintivamente mise la mano sul petto, cercava la
sua mannaia, no non era a Stalingrado, tuttavia l'ambiente era altrettanto
infido per altre ragioni, le orme del "Professore" ora erano
evidenti, ve n'erano anche altre ma rade, di una scarpa più grande.
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Alla fine arrivato su di un pianerottolo o meglio un corridoio dato che
misurava forse un metro in larghezza e cinque metri circa in lunghezza, tre
piccole porte, tutte dotate di uno spioncino e di una chiusura con chiavistello
s'affacciavano sul pianerottolo. Calcolò di essere a circa otto metri sotto il
livello stradale, non si percepiva alcun odore, l'aria non era umida, si
diresse verso la porta ove le orme s'interrompevano, aperse lo spioncino,
guardò dentro, l'ambiente sembrava permeato da una fievole luce azzurrognola,
volse chinandola la testa, riandò con la memoria al Quaderno rinvenuto in terra
a Stalingrado, era descritto questo chiarore che indubbiamente provava la sua
provenienza da questa cella, o almeno si trattava di una coincidenza notevole.
Fece scorrere il chiavistello, aperse la porta, rimase qualche attimo fermo
incerto se entrare o no, in guerra in una situazione del genere avrebbe buttato
dentro una bomba a mano, infine si decise ad entrare, la stanza ad una prima
sommaria ispezione gli parve piccola, con il soffitto basso, e la volta del
tipo a botte, il centro della stanza era occupato da un rialzo in pietra delle
dimensioni di un lettino, addossata ad una parete c'era una panchetta, Bruno vi
si sedette.
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IL
CORPO |
Ansimava emozionato, era certo oramai di trovarsi nel posto da dove quel
Quaderno in parte macchiato di sangue rinvenuto dentro l'acciaieria
"Ottobre Rosso" era uscito. Il "Fato", cioè il destino come
lo intendevano i greci classici, solo un'entità del genere poteva combinargli
uno scherzo del genere, un'idea prese spazio nella sua mente, quella d'aver
percorso una "strada" predestinata, non poteva trattarsi solo di una
coincidenza. Cosa si voleva da lui lontano dalle idee ed estraneo all'ambiente
del personaggio politico probabile autore dello scritto in questione, una
testimonianza, essere solo testimone di quanto in quel momento vedeva davanti
ai suoi occhi. Chinò la testa , rifletteva sull'inutilità di tutti i tentativi
e gli sforzi fatti per fuggire il passato, questa segreta ora lo poneva di
fronte ad una situazione inattesa, angosciante, superiore alle sue forze. Dopo qualche
tempo rialzata la testa guardò verso il lettino, e come si aspettava fosse
qualcuno vi giaceva sopra, celato da una coperta del tipo in uso nell'esercito
si trattava di un "Corpo" umano, che in quel mentre si mosse appena,
sollevò la testa dalla pietra, gli occhi si aprirono, lo guardarono, erano
colmi di lacrime silenziose, il viso tutto emanava un sentimento d’estremo
dolore.
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Bruno imbarazzato distolse lo sguardo da quegl'occhi, guardando in terra, vide
un paio d'occhiali del tipo pince-nez, nel frattempo la testa del
"Corpo" si riadagiò sul lettino celandosi sotto la coperta. Rimase ad
osservarlo in silenzio senza muoversi senza parlargli, s'accorse di sentirsi
bene dentro di se, un sentimento di soave tranquillità s'impadronì di lui, gli
parve di tornare indietro nel tempo, quando bambino rimirava il melo in fiore
del suo giardino, sentendosi felice e giulivo perché era tornata la primavera
stagione bellissima in quanto simile alla sua giovinezza. Per tutto il tempo
della permanenza di Bruno nella cella l'essere disteso sopra il rialzo in
pietra non parlava, a volte gemeva. Non gli venne l'impulso di avvicinarsi,
anzi si sentiva come bloccato, non riusciva a muoversi facilmente, gli venne in
mente la "Rasputitsa" in Russia, ricordava com’era difficile
camminare allora, quando con il disgelo le strade si trasformavano in fiumi di
fango rendendo la marcia lenta e faticosa. L'essere, o qualcosa controllava la
sua psiche benevolmente e per il tempo strettamente necessario, altrimenti come
sarebbe stato possibile provare tutte quelle strane sensazioni, tutte
intuizioni che disordinate gli salivano a tratti nella mente, occorreva
scuotersi e uscire da quella specie di catalessi della coscienza.
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Mosse un piede per accertarsi di aver ripreso il controllo dei propri movimenti,
gli parve d'aver urtato qualcosa, chinatosi con la luce della torcia illuminò
il terreno intorno, aveva messo la scarpa su di un Quaderno, lo raccolse,
l'esaminò, sembrava in tutto simile a quello da lui rinvenuto in Stalingrado,
l'aprì, le pagine ingiallite erano tutte vuote, eccetto in alto sopra la prima
riga ove poco visibile si poteva riconoscere un timbro e un numero, progressivo
per ogni foglio, lasciato cadere il quaderno, guardandosi intorno, gli parve di
percepire una certa luminosità, spense la torcia, una luce bluastra intensa e
diffusa permeava tutta la stanzetta, il "Corpo" rimase immobile, e
tutt'attorno al lettino in pietra la luminosità appariva d'intensità maggiore.
Confuso, saturo di quest’esperienza allucinante Bruno decise di tornare fuori.
Uscito dal portone della palazzina s'accorse d'aver recuperato l'agilità nei
movimenti e le sensazioni di serenità e tranquillità sparirono. Vide gli operai
che si dirigevano verso il cancello d'uscita, guardando l'orologio ebbe la
conferma che era l'orario di fine turno dei dipendenti, si sorprese di essere
rimasto tutto quel tempo la sotto. Una prima considerazione sulla faccenda gli
venne alla mente: "Il Prof viene qua a godersi la pena e la sofferenza del
"Corpo", per ridursi così questo grand'uomo deve avere un bagaglio
d’idee e valori impoverito alquanto, e i suoi ideali ?...., ridotti in polvere,
in ogni modo non sono io la persona adatta per queste considerazioni".
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Certo ora molti elementi di questa faccenda si legavano tra loro, tutto adesso
si presentava sotto un aspetto diverso, rimanevano aperti molti interrogativi,
soprattutto: cosa significasse il tutto, si diresse assorto verso il cancello
d'uscita. I sorveglianti tutti fuori dalla guardiola, lo salutarono con un
"Buonasera Ingegnere", Bruno rispose sorridente, quasi certamente
s'erano accorti che era uscito dalla palazzina, anche per loro quel luogo era
"verbotten", avrebbero fatto sicuramente qualche commento. Percorreva
a piedi la strada verso casa, come sua abitudine, la sera e una certa
nebbiolina incombevano sul suo cammino. Rifece mentalmente un riassunto degli
avvenimenti passati riguardanti quell'incredibile scoperta, doveva prendere
tutte le precauzioni affinché quanto aveva scoperto non trapelasse ad alcuno,
in questo sarebbe diventato un complice del "Prof" a sua insaputa,
perché se il beneamato amministratore delegato avesse saputo della sua
scoperta, con tutti gli annessi e connessi, non avrebbe avuto scampo alcuno.
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FI..FIFI.. NON HA VISTO NULLA |
Decise quale migliore strategia di condotta in merito a quanto aveva visto di
ignorare il tutto, d'altronde era evidente che lo stesso comportamento era
seguito anche dagli autori del misfatto. Rimaneva da appurare se questa linea
di condotta era abbastanza razionale o frutto di un condizionamento mentale di
natura ignota. Nei mesi che seguirono la ricostruzione dei disegni ebbe
termine, per questo lavoro ricevette un avanzamento di carriera. Riguardo alla
palazzina, non vi rimise piede, quel lato rimase chiuso in attesa di
disposizioni dalla direzione centrale, adesso che gli era stato affidato
l'incarico di coordinatore delle attività di manutenzione per i manufatti
aziendali, poteva tenere tranquillamente sotto controllo tutto ciò che
riguardava la palazzina del "mistero". Spesso nelle riunioni di
direzione gli raccontavano la storiella secondo cui lì entravano il
"Prof" e il giovane proprietario per fare i loro bisognini; constatò
invece come costoro non andassero più nel sotterraneo. Per il resto, la sua
vita trascorreva secondo i suoi progetti, tranquilla senza scosse, tutti i
giorni spesso anche la domenica s'alzava presto percorreva a piedi la strada
per recarsi al lavoro un'ora circa di buon cammino, rientrava alla sera, questo
era lo stile di vita tanto agognato, e ci si era attaccato come l'edera
s'attacca ai muri. La madre lo accudiva amorevolmente, facendogli
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più da serva che da madre, considerata ai "bei tempi" una gran
signora della buona società Torinese, per amore filiale si trovava invischiata
in quel ruolo impostole dal figlio. Bruno a volte rientrando a casa prima di
cena la trovava seduta in cucina con le braccia adagiate nel grembo, lo sguardo
fisso avanti a se, allora si dispiaceva per lei e uscivano insieme a
passeggiare sia che il tempo fosse buono o cattivo, altrimenti non usciva quasi
mai, per la spesa e altre faccende pensava la Vicenzina che aveva ripreso a
lavorare per loro a guerra finita, era lei che accudiva a tutte le faccende di
casa e anche oltre come curare la tomba di famiglia. Nel palazzo ove abitavano,
di tipo signorile, loro i Ferreri erano considerati alquanto singolari per
questa loro eccessiva vita ritirata e modesta, giravano voci riguardo la loro
agiatezza che con il tempo come sempre avviene si erano ingigantite, altre
voci, e queste malevoli circolavano sul conto di Bruno, dicevano che non aveva
il testone completamente a posto, che durante la guerra si era distinto per
crudeltà, altri dicevano che aveva liberato il quartiere da alcuni fascisti
particolarmente feroci.
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Insomma la loro vita trascorreva secondo i desideri di Bruno, giorno dopo
giorno mese dopo mese, tutta la loro vita in quella casa era come
cristallizzata, come suo desiderio la loro vita quotidiana seguiva delle regole
precise, senza cambiamenti e senza novità. Ma un giorno... anzi una sera d'inverno
tornato a casa, appeso il cappotto e il cappello al poggia abiti nell'ingresso,
accortosi subito che qualcosa non quadrava in quanto sentiva i soliti odori della cucina, si diresse accigliato in
cucina, vide la madre seduta come al solita sulla sedia con le braccia tenute a
grembo, lei guardandolo affranta gli disse: "Bruno stasera non ti ho
preparato la cena mi sento male qui", indicando con la mano il petto, una
parola percorse il cervello di Bruno: "mussulmana", allarmato e
preoccupato prese in mano la cornetta del telefono, fece il numero del loro
medico di famiglia chiedendogli di venire al più presto per un malore che aveva
preso sua madre. Ritornato in cucina le disse: "Vieni mamma ti accompagno
a etto", -"No Bruno preferisco rimanere qui", -"Mamma
dai",
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-"Il male mi ha preso il cuore, e una fortuna averti potuto rivedere
questa sera, è da mezzogiorno che sento questo dolore, Bruno mio dolce sento
che è arrivata la mia ora". La solita depressione senile pensò Bruno da
qualche tempo le venivano spesso pensieri tetri su tutto, occorreva
tranquillizzarla questo era la cosa veramente importante in quel frangente,
"Suvvia mamma non è la prima volta che ti senti male, smettila
d'agonizzare per un raffreddore". Lei sorrise, forse aveva ragione lui,
vedendolo corrucciato per la sua
salute ritenne opportuno approfittare del momento per parlargli del suo cruccio
che da qualche tempo le aveva preso i suoi pensieri sul figlio: il matrimonio.
Sorrise e parlandogli piano con tono affettuoso approcciò con un "Parliamo
di te invece", Bruno dimenticate come per incanto tutte le preoccupazioni
per la madre, s'alterò stava per urlargli qualcosa, come si permetteva la
vecchia d'intromettersi nelle sue cose, un attimo dopo l'autocontrollo riprese
il sopravvento e si trattenne. -"Bruno, ho visto in questi anni come tu
hai ritrovato una certa serenità, se a me dovesse capitare qualcosa, ecco ho
tanta paura per te capisci, starai qui da solo, senza la tua mamma, quest'è che
tanto m'angustia" -"Mamma stai zitta, taci con queste
sciocchezze". -"Bruno ascolta tua madre, quando io non ci sarò,
perché lo sento come solo una madre sa che questo è il mio ultimo giorno di
vita, ti prego quindi di controllarti e di ascoltarmi".
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Bruno si rassegnò ad ascoltare le scempiagini serali di quella mussulmana
-"Vedi tuo padre, prima di morire si raccomandò tanto con me, ricordo
ancora le sue precise parole – tientelo sempre vicino non lo lasciare mai –.
-"Mamma hai fatto quel che qualsiasi madre avrebbe fatto, non abbiamo
problemi". -"Ti sento tutte le notti come ti agiti nel sonno sai, da
quando sei tornato non ti ho sentito una notte dormire tranquillo".
-"Mamma non sono stato in quegl'anni a villeggiare a Bardonecchia, qualche
problema deve esserci nella mia testa, devi convenire però anche tu che posso
tranquillamente convivere con loro. Vedi dentro di me ci sono parti deboli e
parti forti, l'insieme si equilibra e io riesco a tirare avanti". -"È
giusto quello che dici figlio mio dolce, e dentro di noi che dobbiamo cercare
le ragioni della nostra serenità, il mio torto è stato di volere il massimo per
te, questa mia superbia l'ho scontata cara ahimè!". -"È l'istinto
materno che ti ha guidato in questa tua pretesa, non v'è nulla di male, così
fan tutte le madri in questo mondo". -"Hai ragione Brunetto mio dolce
e caro, io pregavo per te, senza pensare come queste preghiere erano solo
pretese egoistiche".
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-"Anche qui mamma tutto normale, suvvia ci siamo comportati com'è
normale". -"Bruno perché allora ti angusti tanto, lo vedo sai, e per
via dei tuoi trascorsi militari". Qui Bruno chinò la testa, effettivamente
non poteva dargli torto, non riusciva a darsi una spiegazione completa, serena
per questo suo problema forse aveva ingigantito troppo un qualcosa su cui altri
avevano messo da tempo la classica pietra sopra.
-"Mamma, in ogni modo è una cosa mia personale che come vedi non ha pregiudicato il normale corso della mia vita". Suonò il campanello della porta, Bruno si diresse all'ingresso ed aprì era il Dottore.
-"Eccomi Bruno, cos'è accaduto a tua madre".
-"Sono ritornato a casa, l'ho trovata seduta sulla sedia, dice di sentirsi male al petto, vi ho chiamato subito". Il dottore entrando in cucina la vide e guardò preoccupato Bruno, la trasportarono in camera, qui il dottore la sottopose ad una visita accurata, corrucciato le chiese: -"Da quando sentite questo dolore". -"Poco dopo l'una dottore".
- 131 -
-"Ora state tranquilla riposate, soprattutto non vi dovete muovere".
Bruno e il dottore si recarono verso l'ingresso, prima di accomiatarsi il
dottore descrisse in breve la sua diagnosi circa il malore della madre:
-"è un infarto, per questa notte faccio venire un infermiere, ritornerò domani mattina". Udirono un grido provenire dalla camera, accorsero entrambi la donna giaceva in terra, la rimisero nel letto. Il dottore le risentì il cuore, alzando gli occhi verso Bruno esclamò, "È morta". L'evento tanto improvviso quanto imprevisto procurò a Bruno una sofferenza inaspettata.
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FUNERALE |
Il funerale rappresenta l'apoteosi del dolore, è l'evento dove esso liberamente
può manifestarsi nella sua sfera sociale, al di fuori delle pareti domestiche,
nei funerali è possibile "tranquillamente" piangere in strada,
rappresenta anche l'occasione per toccare con mano quanto forte sia non proprio
il prestigio sociale della famiglia colpita dal lutto ma piuttosto l'essere
socialmente accettati. Nel caso della vedova Ferreri quel suo prodigarsi
attorno al figlio, che nel tempo aveva fatto capire sempre più chiaramente che
quel figliolo qualche problema tra la morte prematura del padre, partire
soldato, e altre traversie doveva averlo. Lei con dedizione, da sola nel
riserbo assoluto aveva gestito la situazione facendo il possibile. Al funerale
non parteciparono i parenti che purtroppo non c'erano, ma oltre ai colleghi di
lavoro, il seguito del corteo funebre era formato dalla gente del quartiere,
soprattutto donne, molte conoscevano solo di vista la vedova Ferreri, esse si
fecero un obbligo nel manifestare in quel modo spontaneo la loro solidarietà,
il quartiere sapeva, conosceva, ed apprezzava ora sotto la forma della
partecipazione alla gran fatica che quella donna si era sottoposta per
recuperare il proprio figliolo alla normalità ed evitargli un destino da
emarginato. Bruno non rimase sorpreso da quella folla, È nel carattere della
gente Torinese, forse riservata, poco incline alle esternazioni clamorose ma
capace di comprendere e soprattutto tenere rispetto per le virtù di una
persona. Solo al termine del funerale al momento dei commiati una signora
vecchia amica della madre baciando Bruno su di una guancia disse sottovoce:
"La prego di venire a trovarmi, sappia che le telefonerò per ricordarle
questo mio invito", Bruno la ringraziò, immaginava fosse un convenevole di
prammatica in casi del genere.
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Rientrato a casa, comprese subito la sua nuova situazione, girando per le
stanze, nonostante la Vicenzina come da sua disposizione avesse fatto fagotto
di tutti gli effetti della madre, qualcosa ancora indicava il suo passaggio
nelle stanze, Bruno meticolosamente cancellò questi ultimi segnali della sua
presenza, rimanevano alcuni quadri con ritratti della madre e del padre nel
giorno del loro matrimonio, cose che non lo disturbavano, nel prepararsi per la
notte poco mancò che chiamasse con voce imperiosa come era solito fare sua
madre, in quel momento, solo in quel momento percepì la sua mancanza. Il dolore
lo portò a rinchiudersi in se stesso, ora si sentiva solo per la prima volta in
vita sua, ripensava alla steppa gelida senza orizzonti della Russia, in quel
frangente non si era sentito solo il proposito di ritornare gli aveva procurato
forza in tutti i sensi. Adesso le cose avevano preso una piega diversa. Figlio
unico, suo padre deceduto da molti anni, senza parenti prossimi, rendendosi
conto della sua nuova situazione esistenziale comportante una solitudine di
fatto cui non poteva sfuggire, un pensiero in quei giorni gli veniva spesso
alla mente: "questa è la mia nuova condizione, questa è la mia nuova
normalità". Dopo qualche tempo reagì, ascoltando quanti gli consigliavano
di prender moglie, data la sua ancora giovane età e la sua buona situazione patrimoniale,
pensava o meglio "sognava" un matrimonio vero dove l'amore e
l'affetto la facessero da padroni e non uno combinato da sensali di paese,
facile a dirsi, lui non aveva bisogno di andare da uno psicanalista per farsi
spiegare come con quella piega del carattere, quella forma mentis, venutagli
fuori dall'esperienza militare nella guerra passata, trovasse in effetti
difficile, trasformarsi in un Rodolfo Valentino. Occorreva in ogni modo lasciar
perdere le inutili divagazioni per concentrarsi su un proposito specifico:
sposarsi, e al più presto. Nel frattempo l'unico svago piacevole se lo
procurava la domenica pomeriggio quando andava allo stadio a volte con qualche
suo collega di lavoro, spesso da solo a vedere il suo "Torino".
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L'INCONTRO |
L'appuntamento era per le cinque, l'incontro doveva svolgersi in casa di
un'amica di vecchia data della madre, qualche tempo prima di morire le aveva confidato
il suo cruccio, il suo figliolo per via di quel suo carattere, non s'era ancora
ammogliato, occorreva aiutarlo, facendogli conoscere una ragazza adeguata. Questa
signora prese a cuore l'angustia della sua amica, e circa un mese dopo i
funerali invitò Bruno un pomeriggio in casa sua, e parlandogli con delicatezza
e tatto del desiderio confidatogli dalla sua cara amica gli propose
d'incontrare in quello stesso posto una signorina di ottima famiglia, carina e
molto timida, Bruno ascoltava a testa china, era sorpreso, aveva pensato
all'incontro come alla solita visita di cordoglio. Rialzando la testa dette uno
sguardo intorno, l'atmosfera era intonata alla circostanza, le imposte
semichiuse filtravano una luce fioca, la penombra regnava sovrana nel salotto.
Sua madre lo stava guidando e aiutando per bocca della sua amica, ritenne
importante prestarle attenzione, veniva incontro al suo proposito, di cui aveva
percepito la difficoltà di realizzazione. La situazione gli provocava un
leggero imbarazzo, dette il suo consenso ringraziando la signora. Rientrato a
casa, si diresse in cucina dove era solito incontrare la madre di ritorno dal
lavoro, rimase fermo in piedi contorcendosi le mani e ringraziandola in cuor
suo per quest’ultimo aiuto. Altre volte nella sua giovane vita si era trovato
in questi maledetti vicoli bui dell'esistenza, e in un modo o nell'altro
riusciva sempre ad uscirne indenne, "brava mamma" disse ad alta voce.
Osservando la stanza, s'accorse di come la luce della sera dava un impercettibile
chiarore alla mobilia, aguzzò gli occhi osservando con attenzione tutto
l'ambiente circostante, cercava i suoi automi, automi grigio antracite, i suoi
persecutori negl'incubi notturni, nulla!, si trattava solo di fantasie non
potevano esserci, essi persistevano solo in qualche circonvoluzione cerebrale,
il problema era ristretto all'interno della sua persona. Riprese il cappotto ed
uscì soddisfatto per la buona piega presa dagli avvenimenti fiducioso della
buona prospettiva fornitagli dall'amica della madre. Erano le dieci si diresse
verso il ristorante dov'era solito andare a cenare dopo la morte della madre,
avrebbe festeggiato l'avvenimento con arrosto di capriolo e dolcetto.
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L'APPUNTAMENTO...GALANTE ! |
Prese l'orologio dal taschino del gilet guardò l'ora, le lancette indicavano le
cinque, Suonò al campanello, dei passi rapidi si avvicinarono alla porta, questa
s'aperse, l'amica della madre lo fece entrare, Bruno alquanto impacciato, le
consegnò il mazzo di fiori, l'amica lo ringraziò, e gli dette un bacio sulla
guancia, l'accompagnò verso il salotto, aveva organizzato quel primo incontro
nella riservatezza più assoluta, erano presenti solo loro tre e nessun altro.
Entrando nel salotto rimase abbagliato dall'intensità della luce profusa da un
lampadario enorme e alquanto in basso sopra la sua testa. L'atmosfera del
salotto non aveva nulla a che vedere con quella dell'incontro precedente. Lei
era seduta in un angolo del divano, con lo sguardo fisso sul pavimento,
l'impressione di Bruno fu di trovarsi di fronte ad una ragazza semplice,
composta nei modi e con una certa graziosità, dopo le presentazioni si sedette
in una poltrona a lato ove era seduta lei. Sul tavolino c'era del tè pronto per
essere servito. Si parlarono, Bruno la trovò molto Torinese nel carattere,
l'incontro lo riempì di soddisfazione e fece in modo di farlo capire, si
ritrovarono altre volte in quel salotto, sempre in presenza dell'amica, lei
sempre timida con lo sguardo abbassato gli rispondeva a monosillabi, ma con un
certo trasporto. In uno di questi incontri conobbe la madre di lei, che
osservatolo con attenzione sprizzò compiacimento da tutti i pori della pelle,
evidentemente si erano parlate lo avevano soppesato, valutato come si fa con le
verze al mercato di Porta Castello.
- 136 -
Fu ufficializzato il fidanzamento, in quell'occasione Bruno fece conoscenza con
i componenti della famiglia di lei. Il padre lavorava in banca, quindi fuori
dall'ambiente dell'azienda, questo dava loro un taglio, un'impronta ancor più
Torinese, Infatti il primo argomento di conversazione del padre riguardò la
nostalgia per la Torino anteguerra, quando nella città considerata allora il
salotto d'Italia, si viveva una vita operosa costruita a misura d'uomo.
Accorato manifestò il rimpianto per quei bei tempi, al confronto di ora, ove la
massiccia industrializzazione aveva provocato un invasione caotica di una
moltitudine di estranei, di cui i meridionali rappresentavano oltre ad una
parte consistente della cittadinanza anche quella più arretrata civilmente. Forse
contento e soddisfatto di aver potuto manifestare tutto quel dispiacere per
come ora si viveva in città come molto probabilmente aveva sentito dire
quand'era bambino dal suo babbo, alzato lo sguardo su di lui come folgorato da
una improvvisa e geniale congettura del pensiero che andava manifestando
compiutamente, con voce bassa e compassionevole si disse convinto che nel giro
di due o tre generazioni, costoro nel nuovo ambiente avrebbero acquisito i modi
e le virtù proprie della gente Piemontese.
- 137 -
Bruno ascoltava pensando tra se: "Perché pensavi venisse qua qualche
barone Siciliano, vieni picio, vieni con me, ti porto in certi posti del nostro
piemonte, dove esiste gente ancora con la coda". L'esperienza acquisita
nella sua permanenza in Russia e il relativo incontro con coloro che i tedeschi
consideravano sottosviluppati, lo avevano mondato da quell'atteggiamento gretto
e provinciale di considerarsi civilmente superiore nei confronti degli estranei
soprattutto se provenienti dall'oltre Po. Il padre continuò a parlargli ed ad
annoiarlo per tutto il resto della serata o meglio sino alla fine del contenuto
di una bottiglia di "Dolcetto d'Alba" aperta per l'occasione,
dopodiché scomparve dalla scena. Bruno si guardò intorno, erano rimasti soli
lui e lei, provava piacere per questa pochade tipicamente borghese organizzata
dall’amica di sua madre, prese a parlarle: "suo padre mi ha preso in
simpatia", lei alzando gli occhi e guardandolo per un momento, li
riabbassò dicendogli: "ho ripete questi discorsi con tutti, vedrà, dovrà
risentirli di nuovo". Dopo quella prima presentazione prese a frequentare
regolarmente la loro casa, a volte vi si faceva salotto con alcuni amici del
padre di lei e parenti. In quelle occasioni Bruno sentiva dei sudori freddi per
via di quel timore riguardo il suo passato militare, chiunque nel vederlo
stimandolo per via dell'età, sulla trentina circa poteva iniziare a fargli
domande sulla guerra, su quale fronte avesse combattuto, e altro, così non
avvenne, anzi nessuno parlava specificatamente di quel periodo i discorsi in
merito erano sempre generici, e riferiti ai personaggi storici.
- 138 -
Casa Savoia, quello era l'argomento principe di quel salotto, tutto il tempo
trascorreva nel rievocare episodi, aneddoti, e presto tutti i discorsi
convergevano su di un unico argomento il ritorno dei Savoia! Bruno non prendeva
posizione si limitava ad ascoltare questi discorsi oramai inutili e nostalgici.
Una sera, mentre si liberava del cappotto aiutato dalla cameriera, Elisabetta
contrariamente al solito gli venne incontro e baciatolo sulla guancia,
accompagnatolo in salotto, prima d'entrare parlandogli piano gli disse che la
serata sarebbe stata speciale, al ché Bruno meravigliato le chiese di cosa si
trattava, lei con un sorriso radioso gli parlo' di una vecchia contessa esperta
in sedute spiritiche che lo aspettava in salotto. Cosicché Bruno si trovò
coinvolto suo malgrado in quel rito, si disposero intorno ad un tavolino, lo
scopo venne a sapere era provare a rievocare il fratello di un collega di
lavoro del padre dato per disperso sul fronte Russo. Elisabetta come non mai si
sentiva presa da una frenesia spasmodica, presentò tutta trafelata il suo
fidanzato alla vecchia Contessa, Bruno conosceva queste abitudini di taluni di
cercare tramite sedute spiritiche notizie su quella gran massa di soldati di
cui non si sapeva nulla, dati per morti o dispersi, e siccome accadeva spesso
che costoro ritornassero anche a distanza di anni, ecco come in tanti veniva
spontaneo sperare nel possibile ritorno di quelli dei loro cari di cui avevano
ricevuto la notizia non di morte ma di disperso in guerra.
- 139 -
Bruno guardando la contessa chiuse gli occhi rivisitando con la memoria quel
posto immenso, piatto e ghiacciato, senza orizzonte, disseminato di cadaveri,
non c'era da farsi illusioni di sorta, solo i suoi incubi, solo questi non
rimpatriano. Stavano tutti in silenzio in piedi intorno al tavolo, il padre
avvicinandosi a lui e parlando piano gli disse che per iniziare aspettavano
Elisabetta con i due interessati alla seduta, infatti passato qualche minuto
vide Elisabetta entrare nel salotto e dietro di lei una coppia probabilmente
marito e moglie, fatte le presentazioni anche costoro si disposero intorno al
tavolino, si stava tutti stretti,
ci si toccava con i gomiti e questo dava fastidio a Bruno. Su invito della
contessa tutti misero le mani sul tavolino toccandosele appena, anche questo
provocava del disagio a Bruno, rimasero in silenzio parecchi minuti, il tempo
non passava mai Bruno stava spazientendosi, si sentiva a disagio,... essere in
quella situazione tanto ridicola, d'accordo che il tutto tornava utile per il
suo scopo, ma tutto questo teatrino era veramente troppo, pensava ad un
escamotage per alzarsi ed affermare che il tentativo era fallito, che era
inutile continuare. Tutto preso da questi pensieri s'accorse tardi che il
tavolino si muoveva, stette con le orecchie tese, dopo qualche altro movimento
del tavolino venne a capo della faccenda, la vecchia conosceva il posto sapeva
del trucco, i movimenti erano preceduti da un piccolo rumore appena percepibile
evidentemente la vecchia muoveva qualche pulsante a terra e questi
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alzava il tavolino, dando una forte impressione ai "pici" presenti,
Bruno con l'udito affinato nelle distese di ghiaccio della steppa Russa non si
era lasciato sfuggire il sotterfugio messo in atto dalla contessa. Una voce
prese a parlare, ecco pensava Bruno anche ventriloqua la megera, La voce che
doveva essere quella dell'anima rievocata, descriveva il paesaggio ove era
avvenuta la sua morte, la steppa russa, sconfinata piatta e gelida. Bruno
alzando la testa guardò gli astanti ad uno ad uno erano tutti con la testa
china, cerco d'indovinare chi di loro parlasse simulando la voce probabilmente
il fratello, all'improvviso la memoria gli cavò dalle sue circonvoluzioni
cerebrali un nome "il capitano". Bruno raggelò, le sue mani come
artigli mordevano il tavolino, la solita vecchia onnisciente, c'era da
aspettarselo, persone come queste erano padrone di tutte le chiacchiere dei
salotti della città, ecco qual era lo scopo di quella seduta, fargli capire che
loro sapevano del suo passato di macellaio sul fronte Russo, era anche un
avviso, un monito per il futuro. La voce intanto continuava a parlare ora
descriveva con dettagli precisi come era avvenuta la sua morte, non per mano
nemica, una mano amica lo aveva assassinato strappandogli il cuore dal petto
ancora vivo. Bruno non resse oltre dette un urlo "Basta" e alzatosi
corse ad accendere la luce, sentiva crescergli dentro una violenza, una rabbia
senza fine, si sentiva ingannato, questione di un attimo e la ragione riprese la
sua forza, abbracciando Elisabetta disse di non essere pronto per sedute del
genere, che era stato preso da un'angoscia senza fine nel sentir parlare di
morte in quel modo.
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Il padre lo fece accomodare sul divano, e gli offrì un bicchiere di rosolio,
mostrandosi pieno di comprensione per il suo stato d'animo, la sua era stata
una reazione del tutto legittima, comune a molti che come lui avevano partecipato
a sedute di quel tipo. Bruno alzatosi espresse il desiderio di tornare a casa
per dormirci sopra che l'indomani tutto sarebbe passato. Elisabetta insieme a
suo padre accompagnarono Bruno alla porta, lo rincuorarono di nuovo, appena
uscito, Elisabetta guardò suo padre, lui abbassando la testa e messole un
braccio intorno alla spalla la guidò verso il salotto. Bruno camminava verso
casa con passo svelto deciso, ripensava ancora alla scena avvenuta nel salotto,
certo si trattava di un intuizione mancava un riscontro certo, sentiva dentro
la certezza che tutto era stato organizzato apposta per lui, si trattava di un
segnale importante che loro gli avevano dato, attenzione sembrava volessero
dire noi sappiamo chi sei, uomo avvisato…. Rideva in cuor suo di tutta quella pochade
organizzata per lui, bene bene questo provava che si sarebbero sposati
senz'altro. La previsione fu azzeccata, Per il matrimonio organizzò la sua
lista d'invitati prelevandoli dal suo ufficio, in quei tempi capitava spesso di
assistere a matrimoni senza parenti in quanto tutti deceduti per causa di
guerra. Il matrimonio gli procurò gioia e soddisfazione, tutti erano premurosi
con lui, la sua condizione d'orfano inteneriva, era riuscito ad uscire vivo dal
conflitto, riprendere gli studi e trovare un buon posto, tutte cose che davano
prestigio alla sua persona. Bruno ringraziò l'amica di sua madre, la quale si
fece vedere fugacemente prima dell’inizio del pranzo di matrimonio, per poi
discretamente allontanarsi; da quel giorno salvo rarissime occasioni Bruno non
la rivide più. Per il viaggio di nozze andarono a Parigi, qui Bruno s'accorse
di come erano aculeati gli artigli della sua "Bella Madamin", accadde
nella "prima notte". Con la memoria era riandato a quando durante la
campagna in Russia avvicinandosi il fronte a Stalingrado, e trovandosi in
pattuglia capitava d'incontrare dei civili, l'ordine non scritto era di
uccidere tutti senza alcuna distinzione, per le donne il trattamento suppletivo
era lo stupro, all'epoca si formò la convinzione che l'istinto di predazione
fosse affine all'atto sessuale, spesso preferiva ucciderle prima di
violentarle, per rendere il tutto semplice e sicuro.
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PRIMA NOTTE... MA...
SENZA "MAGLIA ROSA" |
Bruno uscì dal bagno con indosso il solo accappatoio, l'abat-jour sul comodino
tentava inutilmente di dare chiarore alla stanza, Lei stava nuda sul letto, le braccia
distese lungo i fianchi e lo sguardo perso nel vuoto, questo suo stare docile
in attesa del coito lo eccitò, ebbe l'impressione che lei provasse piacere a
ridursi ad oggetto per lui. La rivisitazione critica di certi suoi
atteggiamenti nei confronti delle donne andò in quell'occasione alquanto a
ramengo, le saltò sopra prendendola con furore. C'era qualcosa di primordiale,
atavico nell'atteggiamento di lei e questo gli procurava un desiderio intenso
ed immenso. Quando infine momentaneamente sazio si separò da lei, sedutosi
sulla sponda del letto, stette qualche minuto in silenzio, poi voltandosi per
guardarla negli occhi le parlò: "Non sono stato il primo, perché non mi
hai parlato di questo tuo passato". Lei di rimando: "Perché Mannaia,
tu mi hai parlato del tuo ?". Bruno sorpreso e sconvolto s'alzò, si mise
una mano sul torace guardandoselo, guardò la sua mano s'aspettava di trovarvi
del sangue, un senso di nausea irresistibile gli saliva in gola, corse in bagno
e rigettò come si suole dire pure l'anima. Ripresosi ritornò da lei, stava
sempre immobile sul letto, sempre nuda, le braccia sempre distese sul fianco,
lo sguardo assente, fisso avanti a sé. Si distese al suo fianco e s'addormentò,
anche i pazzi sono esseri umani. Risvegliatosi nel cuore della notte sudante e
ansante per il solito incubo, la vide al suo fianco sempre uguale ma con gli
occhi chiusi, andatole sopra, la rigirò sodomizzandola. Per il resto della
notte dette sfogo al suo piacere e lei stringendo con le mani distese le
lenzuola gemeva per il piacere.
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Al mattino spossato riprese a dormire, Risvegliatosi, dette un'occhiata all'orologio
sul comodino le lancette segnavano le quattro del pomeriggio, Elisabetta non
era nel letto, la cercò con gli occhi, stava vicino alla finestra, si era
rivestita, con la spazzola si lisciava i capelli, alzatosi, s'avvicinò, lei si
rigirò guardandolo e gli disse: "Penso che andremo d'accordo". Bruno
considerò come a volte in una coppia si crea un legame vero e indissolubile,
Lui era il classico merlo ghermito dagli artigli di questa giovane Arpia,
proprio vero! il matrimonio è fatto di gioie e dolori, e soprattutto di
sorpresine.
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VITA MATRIMONIALE |
Il menage familiare di Bruno è rimasto impenetrabile, nulla ho saputo nonostante
le indagini da me effettuate, Eugenio sapeva poco, credo che sia stato sincero,
potevo invero rintracciare i figli e chiedere in qualche modo di conoscere
almeno per sommi capi come fu vissuta da loro l'infanzia, la fanciullezza, e la
giovinezza in quella casa. Pigrizia, normale rispetto per i fatti altrui, non
saprei spiegare bene quali ragioni chiare ci siano alla base di questa mancata
conoscenza nella vita di Bruno, eppure è rimasto sempre fedele alla moglie,
hanno sempre vissuto insieme, questo è altrettanto provato, entrambi
provenivano da famiglie conosciute e stimate in Torino. Tutto ciò comporta in
concreto la possibilità d'effettuare taluni punti fermi sulla loro vita di
coppia. Primo: andavano d'accordo, lei come detto era dotata d'artigli,
conosceva il suo ruolo, era conscia di quello del marito, quindi in quella casa
si conduceva una vita vivibile, forse noiosa, monotona, come lo diventano
d'altronde tutte le vite di coppia con il passare degl'anni. Secondo: Sono nati
e cresciuti due figli, sono diventati adulti, e anche qui tutto normale come
per le altre "galline del pollaio" come dicono dalle mie parti
intendendo con ciò far riferimento a quel conformismo sociale che permette a
tutti di vivere normalmente la vita di tutti i giorni rispettando alcune
semplici regole sociali. Il fatto che i figli siano andati via presto di casa
penso rientri anch'esso del normale svolgersi dell'esistenza, ci saranno state
forse alcune carenze affettive alla base di questa decisione dei figli
d'allontanarsi tanto bruscamente da casa, questo potrebbe anche spiegare in
parte la morte prematura della madre, quest'ultimo pensiero è proprio da
considerare come pura illazione.
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E IL TEMPO PASSA...PASSA |
Il nostro Bruno dato un nuovo assetto alla propria vita privata, tale da
rendere la sua situazione personale e sociale maggiormente conforme e solida, continuò
il suo lavoro, la sua posizione in azienda acquistava anno dopo anno solidità,
oramai la considerazione della direzione nei suoi confronti era consolidata.
Divenuto Direttore aveva partecipato insieme allo staff direzionale
all'espansione dell'azienda, a dire il vero lui con le conseguenze benefiche
del piano Sinigaglia aveva poco a che fare, si occupava solo degli impianti,
era perfettamente conscio di essere un direttore di serie cadetta, come
amichevolmente gli facevano notare in staff, Bruno rispondeva dichiarando che
il suo era il grado più alto cui si poteva accedere senza essere abbattuti
dalla contraerea, alludeva alla strana morte dell'ingegner Mattei. Dopo qualche
anno il "Professore" uscì di scena in quanto "pensionato"
dal suo padrone il quale subentrò nella direzione dell'azienda. Bruno riguardo
alla palazzina non dispose nessun cambiamento, aspettava sempre un ordine dalla
direzione generale per dar luogo al suo abbattimento. Due volte accadde che nei
pressi si sviluppasse un incendio, prontamente estinto dalla squadra pompieri
interna, in tutti e due i casi Bruno si occupò di persona per organizzare una
commissione tecnica con lo scopo ufficiale d'accertare le cause dell'incendio,
e ufficiosamente di far
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pervenire alla sua persona una relazione ufficiosa, con la finalità palese di
verificare se la natura dell'incendio era da reputarsi dolosa. Nessun dolo fu
accertato, la descrizione sull'entità dell'incendio si limitava a far rilevare
come solo un caso fortuito aveva impedito alle fiamme di propagarsi nella
palazzina, lasciandola indenne. Un giorno (pare nel 1971) alcuni avvenimenti lo
costretto a ritornare nel sotterraneo. Accadde durante uno sciopero degenerato
come al solito in tafferugli, la confusione era enorme. Bruno, trovatosi per
caso in quei paraggi, pensò bene di rifugiarsi nella palazzina, aperse il
portone tramite il suo passpartout si rinchiuse dentro. Tutto era rimasto come
lui aveva lasciato dopo la visita fatta anni addietro quando per la prima volta
visitò il luogo. La solita penombra, la solita polvere. Sul pavimento non
rilevò nessun’orma. Colse l'occasione per andare a fare una visitina nel
sotterraneo per vedere cosa era intanto successo al "Corpo", si, lo
chiamava proprio così In realtà aveva una idea chiara sulla sua identità.
Rifece la scala a chiocciola, sino al pianerottolo, si diresse verso la porta
visitata anni addietro, guardando attraverso lo spioncino, vide una intensa
luce suffusa di colore bluastra, rimase meravigliato, dopo tanti anni tutto era
rimasto identico. Levato il chiavistello, aperse la porta ed entrò, c'era la
solita panchetta vicino al muro e il lettino in pietra al centro, era senza torcia,
comunque grazie al chiarore bluastro dell'ambiente riusciva lo stesso ad
intravedere la "Cosa" distesavi sopra, la coperta militare lo copriva
appena, non era come lui ricordava, un nanerottolo, questo invece era di
fattezze gigantesche. Mentre, immobile l'osservava, la testa del gigante si
levò dalle coperte, si mise ad esaminarlo senza proferire parola, quindi
ricadde sul lettino rimanendo immobile.
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Rifletteva Bruno "il Corpo è lo stesso, sta trasformandosi o meglio è
oggetto di una metamorfosi; quindi ha una proprietà fondamentale che è
caratteristica a tutti gli esseri viventi cioè quella di essere un oggetto dotato
di un progetto. Definendo costui un "artefatto" quindi il prodotto
dell'attività di un fattore intelligente, rimanevano irrisolti due problemi:
Primo, chi era il suo creatore? Secondo, come operava?". Chinata la testa
sentiva uno sconsolamento dentro, in terra vide due Quaderni, ne prese uno, nel
frattempo la luce blu aumentò ancora d'intensità, l'aperse riusciva a leggere,
la scrittura era come lui ricordava, caratteri minuti, ordinati, lo stile
ricordava il rotondino classico, sulla prima riga della pagina lesse una
scritta "unconnu". Prese a leggere: È passato poco tempo da quando
"l'occhio di triglia" è venuto a farmi visita, apre lo spioncino
della porta e mi guarda, sembra godere della mia vista, rimane un paio di
minuti ad osservarmi e va via. Sono completamente isolato, ho provato ad
urlare, mi esce appena un filo di voce, penso di essere in un sottosuolo, per
via dell'assoluto silenzio, non odo nessun rumore, se non quelli provocati dai
passi del mio carceriere. Tramite la posta pneumatica sono stato rifornito di
un poco di cibo, sempre e solo gallette militari. Stranamente non ho fame, le
mie funzioni fisiologiche sono assenti. Ho il dubbio di essere forse
nell'aldilà, comunque sia il mio stato di salute e ottimo, la memoria riguardo
alle mie sofferenze fisiche del passato e buona, ricordo perfettamente quando
mi fu diagnosticato il
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morbo di Pot, sotto quest’aspetto, metterei la firma per dove mi trovo, un
altra "quistione" riguarda i miei movimenti fisici, non riesco a
muovermi con agilità, specie quando voglio alzarmi da questo giaciglio
(trattasi di una specie di lettino in pietra), impiego nell'operazione parecchi
minuti, ma non in quanto mi procuri una sofferenza, si pensi ad una persona
sott'acqua con quale agilità di movimenti possa muoversi. La mia psiche è
certamente oggetto di profondi mutamenti, ad esempio la memoria è difettosa e
molto, non ricordo assolutamente dove sono nato, sono sposato ?, chi ero ?,
soprattutto non ricordo il mio nome, ecco tutto questo mi pare incredibile. Le
lacune sono ampie e vistose, e il mio convincimento è che con il passare del
tempo tutta la mia memoria si vada sbiadendo; riassumendo oltre ad essere
smemorato, sento il cervello come svaporato. Anche scrivere mi riesce sempre
più difficile. Bruno aveva finito di leggere, poggiato il quaderno sul
panchetto s'accorse che il chiarore bluastro si era molto attenuato. Uscito
dalla cella volle esaminare le altre due, non vi aveva mai messo piede, aprì
quella contigua, dentro era identica all'altra, avvicinatosi al lettino, vi
vide sopra uno scheletro, ispezionò intorno, sulla pietra vicino al teschio
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c'erano dei segni, chinatosi per osservare meglio, lesse: "U235 92",
si trattava del simbolo di un minerale radioattivo e del relativo peso atomico,
poteva trattarsi dello scheletro di qualche scienziato.
La terza stanza era completamente vuota non c'erano ne’ il lettino in pietra
ne’ l'uscita della posta pneumatica. Per reminiscenza di guerra gli venne in
mente un accostamento singolare: la camera delle torture. Ritornato all'aperto
la prima considerazione che gli venne in mente era di essere testimone di un
fatto incredibile, roba da fantascienza. Si, c'erano nel complesso industriale
altri luoghi ove mai nessuno aveva messo piede, per cui era credibile che
nessuno oltre lui e "quella gente" non fosse mai entrato là. Però!..
come spiegarsi un fenomeno del genere, poteva trattarsi di un miracolo ?, in
genere i miracoli riguardano guarigioni, visioni, lacrimazioni e apparizioni ad
personam, qui si trattava di qualcosa completamente diverso, un fatto
straordinario e soprattutto "nuovo". Quella luce: tenue, suffusa,
bluastra, si rese conto che aumentava d'intensità al passaggio dei dipendenti
verso il cancello d'uscita; poteva fare una telefonata anonima alla polizia, no
non era il caso, sarebbero facilmente risaliti a lui, per l'incarico che
ricopriva in azienda, quindi avrebbero spulciato sul suo passato.
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Rifletteva sul "Corpo": cosa ne sarebbe stato, cosa doveva divenire,
per quanto tempo ancora sarebbe durata la sua metamorfosi, fece un rapido
calcolo, erano ben trentaquattro anni che giaceva in apparente dormiveglia.
Meglio lasciare tutto com'era, d'altronde la cosa andava avanti da parecchio
tempo senza che nulla fosse trapelato in giro. Questi pensieri gli procurarono
nuova angoscia; perché lui poteva entrare ? quale giustificazione trovava un
fatto del genere, Perché proprio lui aveva rinvenuto quel Quaderno nello
stabilimento "Ottobre Rosso". Rivisse i ricordi relativi alla sua
fuga fortunosa dall'assedio di Stalingrado, di come fuggendo si fosse liberato
da quell'immediato condizionamento militare, premessa necessaria ad un ritorno
dell'indipendenza di giudizio, di una certa libertà interiore, perduta in quei
due terribili anni di guerra. Ricordava le parole di ammirazione per il suo
comportamento in battaglia da parte degl'ufficiali germanici. Lo avevano
decorato con una croce di guerra per la sua combattività. Durante la strada di
ritorno comprese solo in parte l'orrore per i crimini commessi. Sentiva la
necessità di giustificarsi, domandava a se stesso: quanti in quelle situazioni
estreme rimanevano santi e non divenivano dei sadici sanguinari. Il suo atto di
pentimento era consistito nella
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cessazione di atti criminali, niente di più. Non si riteneva completamente
responsabile. Ecco, rifletteva adesso Bruno, perché il tuo recupero
dell’umanità da te perduta in quei ghiacci è stata solo parziale, la
conclusione è che sei incompiuto mio caro Bruno. Devi sforzarti per recuperarti
completamente; basta con il senso di colpa per il tuo passato, occorre invece
fare proprie le ragioni etico morali dei vincitori e liberarsi altresì
dell’idiosincrasia nei confronti dei vari credo politici o religiosi. Tornato
in ufficio telefonò alla moglie rassicurandola le disse che doveva trattenersi
in ufficio, sdraiatosi sul divano, rimuginò, su tutti gli avvenimenti della sua
esistenza che per qualche ragione erano correlati con il sotterraneo e con il
"Corpo", si concentrò nel ricostruire tutti gli avvenimenti che lo
avevano condotto in quella cella sotterranea, di come tutta la sua vita fosse
coinvolta in quel mistero, aveva accettato sin dalla prima ispezione quella
presenza, allora come adesso il turbamento per quella cosa rimaneva enorme,
certamente qualcosa nei suoi pensieri erano da allora coinvolti, o per meglio
dire condizionati, le particolari circostanze che avevano permesso al "Corpo"
di vivere all'interno della fabbrica indisturbato per tutti quegli anni, c'era
in tutto questo qualcosa di trascendente, che non capiva ma che accettava. Si
mise a fissare il telefono, cercando dentro di se la forza, no meglio dire la
volontà di fare quella benedetta telefonata anonima, subito respingeva
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l'idea, che fosse lui demandato alla protezione di quell'essere, se si, non se ne
spiegava le ragioni. Continuò con codesti pensieri e s'addormentò come al
solito in un sonno tormentato dai cari incubi, gli automi grigi presero ad
assalirlo con violenza inusitata e lui a dar loro pan per focaccia,
svegliandosi ripetutamente nel corso della notte ansimante e furioso. Alle otto
arrivò la sua segretaria, le disse che andava un momento a casa, percorse la
strada a piedi, perché il passeggiare era dopo il "Torino" la sua
seconda passione, a chi gli chiedeva quanto distasse casa sua dalla fabbrica
rispondeva divertito: "qualche sparasanga di strada".
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!!....FINALMENTE CAPISCE |
L'ispirazione venne improvvisa, fermatosi e voltatosi guardava ora la fabbrica
che, attraverso la foschia mattutina s'intravedeva appena come fosse la prima
volta. Gli venne da sorridere, anzi si mise proprio a ridere, rideva da solo,
ecco come doveva essere successo al Paolo di Tarso folgorato sulla via di
Damasco. Per carità, capita a tutti di capire le cose all'improvviso,
l'intuizione salita in mente dava una spiegazione sulla causa del diffondersi
improvviso nella cella di quel chiarore bluastro, si trattava di una
radiazione, oppure di fenomeno ad esso assimilabile. "Radiazione"
emanata dal rumore di fondo causato dalla massa operaia tramite i loro suoni
naturali, come: passi, parlottii, e altro. Il fenomeno si manifestava al
momento del passaggio degli operai al cancello della fabbrica. Questa
radiazione di fondo lavorava sul "Corpo" a livello atomico causandone
una trasformazione biologica, meglio: una metamorfosi. Bruno riprese il cammino
verso casa, sentiva dei brividi venirgli da dentro, adesso era consapevole, e
tutti i suoi sforzi per trasformarsi in un ignavo dantesco erano miseramente
falliti, il suo passato ritornava sia nei negli incubi notturni sotto forma di
automi grigi, sia nella vita con questa storia maledetta. Quello che stava
accadendo in quel sotterraneo era una faccenda sfuggita di mano a coloro che
l'avevano organizzata.
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Probabilmente "il professore" e il giovane padrone avevano trovato in
quel modo una fonte di loro diletto, in qualche modo si erano procurati quei
"Corpi" forse per assaporarne gli ultimi istanti di vita, oppure per
collezionarli. L'imprevista permanenza in vita di un "Corpo" li aveva
probabilmente lasciati interdetti, anche se, come lui aveva visto, continuavano
a goderselo. Accortisi di come qualcosa iniziasse a non andare nel verso da
loro previsto, pensarono sicuramente al modo di liberarsi del
"Corpo", questi si difendeva forse con l'aiuto delle radiazioni,
allora prima di tutto isolarono l'edificio dando le opportune disposizioni
affinché nessuno potesse accedervi, in seguito: o dalla loro memoria furono
cancellati i relativi ricordi oppure fu bloccata la loro volontà di distruzione
del luogo. Un altro incendio si verificò nella palazzina, accadde due o tre
anni prima che lui lasciasse l'azienda, dedusse il solito maldestro tentativo
del padrone di liberarsi del "Corpo". Costui o qualcun altro, chi ?,
proteggeva il "Corpo" da qualsiasi minaccia o interferenza esterna,
come avrebbe potuto altrimenti starsene "tranquillamente" a lavorarsi
in quel sotterraneo.
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Come potevano anche loro, il padrone e il prof uscire da quella situazione, e
seppure dotati di abbondante pelo sullo stomaco, cosa garantiva loro l'impunità
per il perfido misfatto di cui erano gli autori, difficile risalire a loro a
meno che il "corpo" non fosse chiamato a testimoniare, probabilmente
subivano anche loro un certo condizionamento dalla "cosa" per cui
come aveva notato per se nei suoi rapporti con la "cosa", una sorta
di personale tabù impediva qualsiasi azione ostile nei suoi confronti. Bruno
era conscio dell'irrazionalità delle sue supposizioni, fece un riepilogo
mentale dei riscontri oggettivi rilevati sino a quel momento, essi erano: i
Quaderni, tre ed in tutto simili a quelli visti sulla rivista di giornale tanti
anni addietro, riscontro debole in quanto mancava un esame comparato e tecnico.
La presenza del "Corpo" nel sotterraneo in uno stato biologico
apparentemente inspiegabile, mancavano totalmente i segni di una attività
biologica nel "Corpo", per questa ragione il suo stato poteva essere
catalogato come metamorfico. Anche qui in realtà mancava un vero riscontro
comprovante l'effettiva identità dell'organismo. In conclusione i riscontri
oggettivi, presi isolatamente erano deboli, ma tramite le sue vicissitudini personali
e quanto aveva visto con i suoi occhi laggiù nel sotterraneo, essi acquistavano
collegati tra loro, una forza per lui incontrovertibile.
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Storicamente simili passatempi sono noti e documentati, Valeriano imperatore
Romano caduto prigioniero dei Sassanidi passò il resto della sua vita a fare da
punto d'appoggio a Sapore I quando doveva salire a cavallo. Ancora oggi nel
mondo civilizzato quante nefandezze di tal fatta accadono all'insaputa delle
cronache. Ripensò ai primi apostoli del cristianesimo, come su di loro secondo
quanto riportato nei vangeli fosse disceso lo Spirito Santo per aprire le loro
menti e far comprendere meglio gl'insegnamenti del Maestro, lui, non aveva
goduto d'illuminazioni simili, aveva solo il suo piccolo cervello, troppo poco.
Testimone, ecco la sua nuova veste, la sua nuova condizione umana, non poteva
fuggire, ignorare o evadere da questo "status". Ripensò ai suoi
convincimenti in materia religiosa, in cuor suo non era credente, pur tuttavia
la domenica mattina, Natale e Pasqua andava in chiesa, per opportunità sociale.
Discorsi sulla religione n’aveva ascoltati da parte di persone profondamente
convinte, credevano nell'anima e nella sua immortalità, seguivano con piena
fede i precetti della chiesa cattolica, tutto ciò avrebbe assicurato loro il
godimento di una felicità eterna nell'altro mondo. Ed essere sorretti dalla
forza superiore di Dio, assicurava nella lotta contro le tentazioni del maligno
il trionfo certo. Le sue meditazioni in merito erano invece sempre snervate dal
dubbio amletico.
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Certo invidiava la loro certezza di credenti nella verità rivelata, in generale
di tutti coloro che erano presi da una fede, da una convinzione di qualsiasi
natura fosse: religiosa, politica, scientifica. E tu Bruno, rifletteva con se
stesso sei senza riferimenti avendo abbandonato quelli d'ispirazione fascista, e
non trovando in te quella spregiudicatezza di taluni di tratto fondamentale
delle tue concezioni sociali, culturali, risultavano disgregate, incoerenti.
Quindi il lavoro di condizionamento mentale cui fu sottoposto una volta
arruolato nell'esercito, venne senz'altro facilitato da questa sua immaturità
di fondo, Poteva essere considerato maggiormente colpevole in quanto persona
istruita, in possesso di una licenza liceale, ed impegnato negli studi presso
il politecnico di Torino. Riconosceva alla sua cultura solo la dote
nozionistica, e ricordando gli ottimi voti presi al liceo, comprendeva adesso
il loro non senso, in quanto mandare giù a memoria pagine e pagine di Cicerone,
Virgilio, Catullo non rappresentò mai un problema.
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Confortato da queste considerazioni non capiva ancora se un nesso tra lui e
quella faccenda la sotto c'era o non c'era, ora occorreva ancora aspettare che
la metamorfosi si compisse, Quanto tempo doveva ancora passare, C'era da
considerare che l'attuale situazione aziendale aveva portato ad alcune
ristrutturazioni importanti per cui ad esempio il numero dei dipendenti era
stato alquanto ridimensionato, le lotte sindacali degli anni passati erano solo
un ricordo per nostalgici, tutto questo potrebbe rallentare la metamorfosi se
non arrestarla del tutto. Bruno non fece mai ritorno nel sotterraneo, solo
alcuni mesi prima d'andare in pensione provò di ritornarvi, avvenne durante uno
dei soliti duri confronti tra la direzione aziendale e i sindacati, accadde che
una parte dei dipendenti si rivoltasse contro gli scioperi organizzati dai
movimenti sindacali e manifestasse con una marcia la loro contrarietà. Bruno
che sapeva dell'organizzazione di questa manifestazione sindacale, quando gli
venne all'orecchio la portata del suo successo, i suoi pensieri si rivolsero
subito al "Corpo", e vincendo un'abulia mentale che lo prendeva tutto
ogni volta che pensava al sotterraneo, incurante di tutto si diresse verso la
palazzina, avvicinatosi al portone rimase fermo incapace di proseguire, si
sentiva senza energie
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con la testa vuota. Dalla guardiola distante circa una quarantina di metri un
sorvegliante riconosciutolo avvisò subito il suo collega, insieme rimasero ad
osservarlo interdetti, uno di questi rivolto all'altro gli disse: "Vai da
lui tiene un comportamento strano, che si senta male?". Il sorvegliante
avvicinatosi gli chiese "Signor Direttore.. ha bisogno?", e
guardatolo interdetto per via dell'espressione di Bruno continuò:
"Ingegnere venga l'accompagno in guardiola lì potrà sedersi", presolo
sottobraccio s'allontanarono dalla palazzina, fatti pochi passi Bruno riprese
il controllo della coscienza, e resosi conto di una qualche sua
"defaillance cerebrale" chiese di essere subito accompagnato a casa.
durante il viaggio riflesse a quanto gli era successo, "Ecco come si difende
quel coso la sotto, probabilmente ora si trova in uno stato tale per cui non
vuole la presenza di nessuno neanche della mia". Nel frattempo
l'Amministratore Delegato informato del suo malessere informò immediatamente il
Presidente, questi telefonò a Bruno per accertarsi delle sue condizioni di
salute e fattogli gli auguri di pronta
guarigione si congedò dicendogli: "Bruno cavo e tempo che tu ti prenda
quelle distrazioni di vita a cui per troppo tempo hai rinunciato".
Sorpreso ed ammirato per il modo blando e cortese con cui era messo da parte
riuscì a malapena a farfugliare un grazie. Messo in pensione, gli rimase dentro
un poco d'amarezza, in azienda negli ultimi anni era stato messo da parte,
faceva parte delle regole del gioco lasciare il passo ai "giovani leoni"
n’aveva visti molti di questi stravolgimenti cui si davano nomi inglesi atti a
ridare slancio alla produttività aziendale, comprese bene che oramai non era il
caso di rimanere attaccati a quella poltrona dirigenziale, occorreva accettare
il ricambio generazionale senza fare troppe storie.
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CHE
BELLEZZA FINALMENTE IN PENSIONE |
I veri dispiaceri Bruno non l'aveva ricevuti lasciando l'azienda, alcune
vicende familiari n’erano invece la causa. La morte della moglie per tumore
avvenuta due anni prima, ricordava spesso di come Elisabetta lo aveva informato
del male terribile che l'aveva colpita, tornando come tutte le sere a casa dal
lavoro, verso le nove, la vide in cucina seduta su di una sedia. Vedendola
Bruno non poté fare a meno di ricordare come anche sua madre il giorno che morì
era seduta nello stesso modo, e forse nello stesso posto, era solo depressa
probabilmente aveva vissuto un'altra dura giornata con i figli, s'apprestava a
dirle qualche parola di conforto quando lei l'interruppe: "Bruno ho
ricevuto l'esito delle analisi per lo stomaco, il dottor Pieri è stato gentile
mi ha parlato informandomi dettagliatamente sul significato dei termini
usati", "Cosa c'è allora" "C'è mio caro che ho un tumore e
anche abbastanza avanzato", detto questo, Elisabetta appoggiando un gomito
sul tavolo e tenendo la mano sulla fronte lo guardò rassegnata dicendo ancora:
"Mio caro passerai una lunga vecchiaia tutto da solo", Bruno la
guardò, era proprio vero e lei aveva capito immediatamente la sua situazione
futura. "Ma oggi con le cure moderne potremo forse venirne a capo",
"No Bruno mio, non farti illusione, pensiamo piuttosto come poter gestire
nel modo migliore la cosa con i nostri marmocchi". Bruno si sentiva
estraneo a quanto la moglie gli aveva appena detto, un'indifferenza totale
s'impossessò di lui, uscito dalla cucina
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si rinchiuse come spesso faceva nello studio, in cuor suo considerava come
passata questa fase della sua vita, ora un'altra vita gli veniva più o meno rovinosamente
incontro, la vita di un anziano solo, nel declino della vita, occorreva
prepararsi per vivere questa nuova stagione della sua esistenza. Elisabetta
ventisei anni vita insieme, destinata a finire come erano finite altre fasi
della vita, l'infanzia, la giovinezza la guerra, il ritorno dal fronte, la vita
insieme, tutti questi pensieri affioravano nella mente insieme a qualche flash
fotografico di ricordi più o meno vivi. I figli tanto faticosamente cresciuti,
grazie a lei, certo oramai erano grandicelli, occorreva affrontare questa nuova
situazione ed Elisabetta doveva aiutarlo sino all'ultimo. La parola cucina
s'adatta più ad un locale con mobili vicini alle nostre tradizioni, quella di
Bruno era una cucina avveniristica, ampia, simile ad un bar, era stata rifatta
almeno tre volte da quando ancora ricordava com'era il locale quando ancora era
viva sua madre, una cucina come se ne trovano ancora adesso in qualche vecchia
casa delle langhe. Bruno si mise seduto su di un panchetto, la moglie dietro il
tavolo e i due figli stavano in piedi, le file della casa le tirava tutte
Elisabetta lui faceva solo da bella statuina, mai non si era intromesso, mai si
era permesso di fare o dire qualcosa senza il permesso della moglie, adesso
l'annuncio della malattia era compito di Elisabetta, disse lo stato delle cose,
senza scene, pianti e drammi vari. I ragazzi dapprima attoniti, presero
contatto con la nuova realtà che la madre prospettava loro, un futuro senza di
lei, quindi animo e affrontare la vita adulta senza lacrime inutili.
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Il male lavorò velocemente su Elisabetta nel giro di appena un anno morì
consumata dalla sofferenza. A funerali terminati Bruno guardandosi intorno
constatò che questa volta non c'era nessuno per aiutarlo, solo i due figli che
dovevano essere invece aiutati, ritornati a casa, Ester preparò qualcosa da
mangiare, Bruno sempre silenzioso li guardava di tanto in tanto e nonostante
tutte le accorate raccomandazioni della moglie si sentiva incerto indeciso su
come affrontare la vita nei giorni a venire. L'incertezza durò poco il figlio
maggiore si trasferì in Francia aveva trovato lavoro a Parigi. Ester, appena
partito il fratello riempite due borse letteralmente scomparve dalla sua vita.
Si era rivolto ad un investigatore privato per rintracciarla, gli fecero un bel
salasso al conto in banca, con l'unico risultato di avere una foto di lei,
scattata a Danzica, dove era andata a vivere sposando un polacco. Era
amareggiato da questo loro comportamento. Riguardo a loro riteneva di avergli
dato molto, L'invitava sempre alla modestia, di ringraziare Dio della fortuna
di essere nati in una famiglia benestante. Ripensando alla loro educazione
forgiata soprattutto dalla madre e di cui lui non vi aveva avuto una gran
parte, il lavoro lo aveva distolto molto dagli affetti famigliari, questo lo
riconosceva come una sua colpa, la causa di quel distacco dei figli nei suoi
confronti.
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Viveva in quella casa oramai troppo grande per lui, non volle cambiarla, vi
stava bene, c'era anche una veranda spaziosa e ben tenuta ove passava quasi
tutto il suo tempo, curando le rose e altri fiori, coltivava anche un piccolo
melo di cui andava fiero. Una barboncina bianca di nome "Lola" gli
procurava un poco di compagnia, dandogli il pretesto di uscire, per cercare di
svagarsi. Giornalmente veniva a prestare servizio e preparargli da mangiare una
giovane donna, sordomuta, svolgeva bene il suo lavoro, a volte stranamente si
prendeva delle confidenze inaspettate, lui lasciava fare, era un modo per
rompere la solitudine che lieve lieve cominciava a farsi sentire. A questo suo
stato depresso e pieno di senili pensieri si contrapponeva Un aspetto
tutt'altro che cadente, non era il bell'uomo secondo i canoni estetici del
mondo del cinema, ma comunque era oggetto di meraviglia quando doveva
dichiarare la sua età in quanto portava molto bene gli anni e spesso si vedeva
costretto a mostrare la carta d'identità per convincere gli altri della sua età
anagrafica. Lui pensava che forse lo si doveva alle sue visite nel sotterraneo,
chissà! poteva essere rimasto contaminato dalle radiazioni che sicuramente
avevano un certo effetto simile al Gerovital.
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QUANDO SI’ DICE IL DESTINO
Una sera, di ritorno dalla passeggiata pomeridiana con la sua barboncina
entrando nel portone vide attaccato alla porta dell'ascensore il cartello di
guasto, cosicché rassegnato prese a salire le scale a piedi, abitava al quarto
piano, salire le scale di sera lo intristiva, la luce era fioca dappertutto, le
pareti sapevano di antico, saliva su lentamente a testa bassa, quando in un
angolo del pianerottolo presente tra una rampa e la successiva vide una scopa
di saggina muoversi appena, alzata la testa per vedere chi la manovrasse, due
occhi neri ed enormi lo guardavano fisso, ebbe l'impressione di poterci
navigare dentro in quelle orbite, c'era qualcosa di selvatico e maligno in
quello sguardo qualcosa di primordiale e atavico, si scosse,
tornò ad osservarli, appartenevano alla sua domestica una ragazza muta, stava
pulendo le scale per il condominio, un modo per guadagnare qualche cosa di
extra. Forse era la prima volta che l'osservava veramente, non aveva mai notato
il lei quell'espressione, sbiascicò un buonasera e fece per passare oltre,
dovette sostare ancora, Il portiere stava davanti a lui, l'osservava, gli parve
avesse sul viso un espressione appena beffarda, eseguendo un inchino profondo
disse: "Cerea ingegnere, ha visto che occhi quella, sono tutto un
programma, ma non v'avvicinate che vi sbrana è selvatica come una capra".
Sempre sorridendo avvicinatosi alla muta fece il gesto di toccarle il culo, lei
alzata la scopa prese ad agitarla minacciosamente verso di lui, che evitò il
peggio scansandosi velocemente, "Che le dicevo Ingegnere", Bruno
rimase infastidito dalla mancanza di rispetto per la donna, dopotutto era la
sua domestica. Il portiere scusandosi per il guasto dell'ascensore, lo
rassicurò riguardo alla
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riparazione affermando che i tecnici ascensoristi sarebbero intervenuti
l'indomani in mattinata, lo salutò con i suoi mille inchini ruffiani e rientrò
nella guardiola. Bruno riprese a salire le rampe, fermatosi di nuovo s'affacciò
dalla ringhiera girando gli occhi sopra e sotto cercò la donna, la vide, stava immobile
dove l'aveva lasciata, lo guardava ancora, rimase turbato, riprese a
incuriosito s'accorse che era la muta lo stava salutando alla sua maniera, con
il campanello era il suo modo di comunicare, lui rispose al saluto agitandole
la mano. Da quel giorno i rapporti con la muta cambiarono, lui s'accorse subito
che non era tranquillo quando lei era in casa, aveva l'impressione che si
divertisse a stuzzicarlo, insomma si sentiva turbato dalla sua presenza.
Complice una bella giornata di primavera la quale talvolta fa provare
sensazioni non scomparse ma sopite sotto gli ampi strati dell'età Bruno fattosi
coraggio e avvicinatosi a lei l'abbracciò stretta, il caldo corpo di lei gli
procurò sentimenti e sensazioni che sembravano oramai sepolti, in
quell'abbraccio Bruno sentì il tempo ritornare indietro, un turbinio d'emozioni
lo prese tutto, sconvolto dalla coscienza della debolezza commessa si staccò
guardandola negli occhi, riabbassò lo sguardo, ansimava non riusciva a
controllare il turbinio delle emozioni che gli nascevano dentro, rialzò lo
sguardo che si posò sulle spalle nude di lei, il suo cuore batteva forte come
non lo sentiva battere da anni,
vide la mano di lei che gli toccava il petto, allora la guardò, lei gli sorrise
tutta contenta, e guardando il letto gli fece capire le sue intenzioni. Quando
esiste l'univocità d'intenti tutto si velocizza e si semplifica, si ritrovarono
ambedue nudi sul letto, Bruno fece per penetrarla, incontro un'inattesa
resistenza, lei ansimando fece un movimento, come volesse sottrarsi al coito
imminente, Bruno l'abbracciò con forza, improvvisamente avvertì che il pene era
entrato nella vagina, lei s'irrigidì tutta scostando la testa da lui prese a
respirare forte per alcuni istanti, quindi rigirandosi verso di lui lo guardò
dolcemente, Bruno rimase sorpreso della sua verginità, ed allora ad amarla fu
più dolce.
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Rimasero ambedue presi dalla passione amorosa, Bruno tutti i giorni l'aspettava
con trepidazione, la loro storia si sviluppò dentro l'appartamento e dentro rimase.
La felicità per quest’amore inatteso l'aveva coinvolto nel profondo del proprio
io. Mai avrebbe immaginato, una volta raggiunta l'età della pensione, di
trovarsi impelagato in una storia con una donna più giovane. aveva
l'impressione di risvegliarsi da un lungo letargo, le emozioni i sentimenti,
gli risalivano alla mente, impetuosi e disordinati. Presero entrambi tutte le
precauzioni affinché la loro storia rimanesse segreta, nessuno doveva venire a
conoscenza di quest’amore, i suoi accorgimenti si rivelarono efficaci, nemmeno
il portiere non sospettò mai qualcosa.
Lei prese ad insegnarli il linguaggio dei sordomuti, cattiva maestra cattivo
allievo, risultato: ebbero sempre delle difficoltà a comunicare tra loro, lui
oltre a qualche segno appreso con difficoltà le parlava a bassa voce, la muta
capiva leggendogli le labbra, I primi giorni Bruno l'aspettava al mattino nudo
nel letto e quando Lei arrivava si spogliava tutta buttando le vesti in terra
si tuffava nel letto e facevano l'amore per buona parte della mattinata, spesso
praticavano del sesso estremo, la muta provava piacere nel sottostare alle
pretese sadiche dell'ingegnere che a volte le legava le mani dietro la schiena e
poggiandola sullo schienale di una poltrona che lui aveva sempre definito
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come la sua "favorita" la sodomizzava con forza tanto da farla spesso
urlare a suo modo dato che le mancava la parola con dei "Nbeh, Nbeh",
nessuno li disturbava, soddisfatta la loro animalità, lei andava in cucina a
preparargli il pranzo lui usciva per comprare il giornale, passando davanti la
guardiola scambiava due chiacchiere con il portiere, a dire il vero non lo
poteva soffrire, ma oltre al giornalaio era l'unica persona con cui
socializzare, si era accorto di come il portiere da tempo, coltivasse qualche
pensierino non proprio casto nei confronti della muta, lei lo aveva sempre
respinto, ignorava il tapino che mentre "bramava" lui su nell'attico
se la spassava, questo era un ulteriore motivo di precauzione per tenere
nascosta la loro relazione, altrimenti sarebbero nati i soliti commenti del
cazzo, da parte dei vicini, commenti che trovavano una loro fonte sorgiva
inesauribile, proprio nel portiere, non voleva mandarlo via questo no, gli
faceva comodo, occorreva, come si fa con gli asini tenerlo a bada.
La muta non venne a stare da lui, preferiva così, viveva in un piccolo
appartamento dalle parti di Porta Castello insieme alla madre, il padre non
viveva con loro da tempo, non aveva mai accettato quella figlia. n glielo
porse, in breve raccontava come suo padre desse la colpa alla madre per via del
suo difetto, per questo si erano separati, Bruno le fece segno indicandosi la
testa che suo padre aveva poco giudizio, lei gli sorrise, amaramente invero.
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Bruno conscio di non aver più vent'anni e neppure trenta, prese ad aver gran
cura del suo aspetto fisico, fece venire un istruttore di palestra, dietro suo
consiglio acquistò alcune macchine ginniche, due volte a settimana, si
sottoponeva a tutta una serie d'esercizi, con l'obiettivo di migliorare il suo
potenziale atletico. Siccome i mezzi finanziari non gli mancavano dietro
suggerimento dell'istruttore diede appuntamento ad un dietologo affinché gli
fissasse una dieta opportuna. A dire il vero come constatò anche l'istruttore
la forza fisica non gli mancava di certo, soprattutto nelle gambe, i suoi
polpacci erano grossi come quelli di un giocatore di rugby. Quest’entusiasmo
era una conseguenza della sua passione per la muta, lei non comprese molto bene
perché lui avesse preso quella passione per gli esercizi fisici. Bruno
raggiunse il suo scopo quello di "scopare bene", d'altronde lei non
era come la moglie, che come lui le disse una volta era un'eccitante pesce
lesso, e con quel suo stare docile lasciandosi prendere senza partecipazione,
senza variazioni, aveva con il tempo stufato alquanto. La muta era tutt'altra
cosa, gli saltava addosso, ogni giorno inventava qualcosa di nuovo, si lasciava
guidare molto dall'istinto, seguiva
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i suoi istinti in maniera semplice, senza tante storie, tutta tesa a godere
liberamente. Supposizioni fantasiose pensava Bruno, fatto sta che fare l'amore
in quel modo e con quella frequenza, era una esperienza nuova ed esaltante,
dopo alcune settimane cominciarono a farsi sentire gli effetti sul suo fisico che
seppure allenato e preparato era sempre quello di un ultrasessantenne, si
sottopose attraverso visite specialistiche a tutta una serie di terapie per
cercare di esaltare al massimo le sue prestazioni sessuali. Tramite un cinese
si procurò afrodisiaci orientali a base di corna di rinoceronte e denti di
tigre e della cocaina di cui aveva conosciuto pregi e difetti durante la guerra
sul fronte Russo. Tutto questo costava soldi, a milioni, Bruno guardava nelle
cose sue al risultato non a quanto spendeva, ritenendo di ricavarne un sicuro
giovamento non lesinava in spese. Venne l'estate Bruno organizzò una vacanza su
di una nave da crociera, portandosi dietro anche la madre di lei, si
divertirono moltissimo, rimase anche l'unica volta in cui si ritrovarono
insieme fuori dal suo appartamento. Ad ogni occasione Natale, Pasqua,
Compleanno, San Valentino e ancora oltre le regalava dei gioielli, soprattutto
collane di tutte le fogge, chili di collane tutte d'oro zecchino.
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Quest’andazzo andò avanti per circa un anno, poi un giorno la muta con il
linguaggio dei segni gli fece balenare l'idea del matrimonio alquanto
timidamente per invero, s'aspettava forse che la cosa partisse da lui, Bruno
aspettava questo discorso, era nell'ordine delle cose che prima o poi tra loro
se ne parlasse dato il modo di come vivevano il loro amore, aveva riflettuto a
lungo su questo aspetto, la prima risposta gli era nata da dentro, riguardava i
suoi figli, si erano allontanati, senza quasi farsi sentire, forse non aveva
provato per loro un grande affetto, aveva parlato con il figlio l'ultima volta
qualche mese dopo essere andato in pensione, oltre ai soliti convenevoli il
discorso era scivolato sui soldi, gli chiese il figlio con quale troia stesse
consumando il patrimonio di famiglia, qui Bruno pensò al portiere, lo spione lo
controllava e riferiva, erano tutti contro di lui, interessati solo ai suoi
soldi, pronti a saltargli
addosso se faceva qualche spesa per i cazzi suoi. Il patrimonio ecco il gran
fratello che sempre lo aveva protetto dai tempi di Stalingrado, i soldi,
possono tutto, creano le condizioni per assaporare meglio le occasioni buone
della vita, senza il patrimonio di famiglia,molto probabilmente vivrebbe al
Cottolengo con indosso la camicia di forza, invece per via dei soldi, girava
libero, riverito, questa roba spettava ai suoi figli, indubbiamente, per questo
non si voleva sposare, la sua relazione con la muta doveva restare nel segreto
dell'appartamento la stava aiutando economicamente, e molto ma non poteva
sposarla.
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Cercò con tutta la delicatezza di cui si sentiva capace di trasmettere queste
sue decisioni alla muta, scrivendole su di un foglio, parlando aiutandosi con
le mani, lei lo ascoltava diritta in piedi vicino a lui, stava nuda tenendogli
un braccio sulla spalla, guardava il foglio ove Bruno aveva scritto alcune
frasi, con un'espressione leggermente malinconica, lo strinse a se dondolandosi
un poco e guardava sempre il foglio, quindi inginocchiatasi di fronte a lui e
chinatasi sul suo cazzo invero del tutto inerte e moscio prese a slinguazzarlo
sino a che fattosi duro iniziò a lavorarselo tanto da succhiarne in breve lo
sperma che ne usciva.
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FINITA LA CUCCAGNA..
Un giorno, dopo aver fatto l'amore, la muta con il suo linguaggio gli fece
capire che aveva conosciuto un ragazzo nella stessa sua condizione fisica, le
aveva chiesto di sposarla, lei voleva accettare, osservò Bruno come per
chiedergli un parere e anche per vedere come reagiva, lui non disse niente. Lei
si rivestì in tutta fretta, e salutatelo uscì. Bruno comprese che non l'avrebbe
rivista, corse attraverso la veranda fino al parapetto, affacciatosi guardò
disotto verso la fermata dell'autobus, la vide ferma in attesa dell'autobus,
lei come sentendo di essere osservata alzò gli occhi verso di lui, gli sorrise
salutandolo con la mano. Bruno Rientrato in casa preso dall'angoscia si diresse
in cucina, si sedette a capo chino, sentiva dentro lo spasmo dei suoi
sentimenti, la memoria ritornò a Stalingrado quando preso prigioniero dai russi
e portato dentro l'acciaieria "Ottobre Rosso" aspettava il meritato
supplizio. In quel momento anche questo ricordo si accumulò a tutte le altre
traversie della vita, l'intensità emotiva di quegli istanti divenne
incontrollabile, chinata la testa piangente gridò "pietà terra".
Nessun’ora poteva aiutarlo, il suo corpo consumato dagli anni non era in grado
di soddisfare le sue pretese estetiche e fisiche, la corsa riflesse Bruno era
al termine, la vecchiaia incombeva con la sua morsa ineluttabile, lui doveva
inchinarsi ad essa.
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Sì le distrazioni non gli mancavano, frequentava il circolo dei dirigenti
anziani, faceva del volontariato presso una comunità per il recupero dei
tossicodipendenti, tutto questo non era sufficente a rendere la sua vecchiaia
serena, passabile sì ecco il termine giusto. Giorno dopo giorno la sua
personalità veniva sempre più invasa da un’angoscia esistenziale, non era
religioso, come sappiamo non era d'indole socievole e ciò aumentava la sua
solitudine e il disagio. Si era sempre accodato e fatto proteggere dalle
istituzioni sociali che via via si affermavano nella vita pubblica del paese
senza mai partecipare ideologicamente ad esse, la famiglia, la fabbrica, la
guerra, non erano vissuti da lui coscientemente ed emotivamente ma solo come
partecipazione necessaria alla propria sopravvivenza. Era convinto altresì che
questo distacco dalla vita sociale significasse fortezza del carattere, sotto
questo aspetto la sua personalità mostrava ora tutta la sua inadeguatezza. La
fine della relazione sentimentale con la muta coincidente con il cedimento
della personalità e del carattere di Bruno, si fecero via via evidenti i segni
tipici di una senilità disordinata e precoce, nel giro di un paio d'anni il suo
aspetto mutò radicalmente divenne magro, incanutì di colpo, la sua persona era
oggetto di commenti non proprio benevoli da parte del vicinato, ad esempio,
talvolta capitava
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che il portiere gli facesse notare come vestito di tutto punto per la sua
passeggiata uscisse con le ciabatte ai piedi. La cura della sua persona passò
dall'attenzione quasi maniacale quando ancora perdurava la sua relazione con la
muta, ad una trasandatezza totale. Questo comportamento conosceva la sua
apoteosi nei pomeriggi, quando usciva con la barboncina per la passeggiata
quotidiana intorno alle quattro, camminava a testa china pronto a raccogliere
cose strane ed inutili, come mozziconi di matite, bottoni ed altro, per non
parlare del suo rovistare continuo in ogni cestino di rifiuti che incontrava,
il posto da cui traeva le sue massime soddisfazioni erano i vari parcheggi auto
sparsi per la città, il terreno circostante alla porta lato guida delle auto in
sosta rappresentavano il suo terreno di caccia preferito, trovava e raccoglieva
bottoni, fazzoletti, orologi ed altro, Non aveva coscienza di questa forma
d'accattonaggio. Capitava che altri, barboni o extracomunitari in cerca di
qualcosa di buono tra i rifiuti, entrassero in competizione con lui per
rovistare nei posti migliori, Bruno riusciva facilmente a prevaricare con
costoro grazie ad un’aggressività incisiva. Questo degradarsi progressivo del
comportamento non conosceva freni, sia per lo stato di solitudine in cui
viveva, non frequentava nessuno, sia in quanto con la senilità alcune tare del
carattere mai sopite erano riemerse. Per sua fortuna il portiere lo aveva
convinto ad assumere del personale, cosicché per quanto riguardava
l'appartamento era tutto affidato a costoro altrimenti la casa in breve tempo
si sarebbe trasformata in un letamaio. Solo per la sua passeggiatina
pomeridiana non voleva essere accompagnato da nessuno.
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L'EFFERATO
ASSASSINIO |
Sconvolgente, inquietante, come definire questa parte del racconto d’Eugenio,
la ricostruzione della vicenda e la veridicità della versione fattami circa i
moventi di un possibile efferato assassinio compiuto nella città anni or sono alquanto lacunosi, una parte della
ricostruzione si basa su voci raccolte qua e là nel sottobosco della città,
queste voci si diffusero qualche giorno dopo il fattaccio riguardante, il
suicidio di un noto scrittore ebreo, voci peraltro non raccolte dai quotidiani,
a causa del distacco oramai esistente tra le "penne" della carta
stampata e il popolino minuto. La confessione sembra piuttosto il frutto di un
mitomane, probabilmente dovuto per via di un certo desiderio di protagonismo
del nostro personaggio, oppure per un bisogno inconscio d'espiazione delle
proprie colpe. Eugenio non parlò direttamente con me di questi fatti, sono
venuto a conoscenza di essi tramite la lettura del suo diario ove riportava
quanto Bruno andava narrandogli durante i loro incontri giornalieri.
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Bruno entrò nella libreria, doveva ritirare un libro prenotato tempo prima,
preso il libro, si mise in un angolo del negozio per leggere la recensione
senza disturbare né essere disturbato, tutto assorto nella lettura, avvertì pur
tuttavia, come talvolta capita ad alcuni, uno sguardo su di se,
inconsapevolmente girando la testa vide due occhi che lo stavano fissando,
riprese a leggere spostandosi di qualche passo, finito di leggere la recensione
del libro si guardò di nuovo intorno, questa volta non in quanto sentisse uno
sguardo su di sé, semplicemente per accertarsi di non essere osservato, neh!
era ancora sotto tiro, osservò bene a chi appartenevano quei due occhi,
probabilmente qualche ex collega lo aveva riconosciuto. La sorpresa fu grande
quando riconobbe l'osservatore, si trattava di un suo concittadino, noto
scrittore un ebreo miracolosamente scampato al fumo del camino, rientrato in
Italia aveva descritto le sue vicissitudini in un libro divenuto subito famoso.
Bruno allarmatosi sommamente per il fatto di essere insistentemente osservato
proprio da costui, rovistando nella sua memoria non ricordava di aver mai avuto
a che fare, neppure negli anni di gioventù, con costui, oltretutto era di
qualche scaglione più anziano. Sempre palesando noncuranza si mise in un altro
angolo della libreria fingendo Interesse per alcune copertine di libri in
esposizione, rialzò gli occhi per verificare se lo scrittore l'osservasse
ancora, per la miseria l'osservava, l'osservava insistentemente. Preso dal
panico uscì dalla libreria allontanandosi di qualche metro, fermatosi dietro
una colonna, rimase in osservazione con lo sguardo fisso alla porta a vetri
della libreria, passati due minuti vide una mano posarsi sulla maniglia della
porta, apertasi, ne uscì lo scrittore. Questi guardandosi intorno e vistolo si
diresse verso di lui.
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"Cosa diavolo voleva maledetto lui, maleducato, fissarmi in quel
modo",
pensò Bruno, angosciato, vedeva lo scrittore avvicinarsi, notò nel suo sguardo
non un'aggressività rancorosa, ma una fermezza, una determinazione decisa, l'apostrofò:
"Lei è l'Ingegner Bruno", non poteva nascondersi, dovette
rispondergli
"Si, desidera",
"Lei è un reduce della campagna di Russia ?", Bruno sobbalzò,
"No si sbaglia",
"Mi scusi, lei mi era stato indicato come uno di quei pochi usciti vivi
dall'assedio di Stalingrado".
Bruno non rispose girò i tacchi e s'allontanò velocemente, una rabbia violenta gli montò in testa, era stato riconosciuto, riconosciuto da quel maledetto verme sfuggito al camino. Venivano in quest’occasione confermate tutte le sue apprensioni circa i suoi trascorsi militari, e tutti gli sforzi nel cancellare dagli archivi questi maledetti trascorsi. Nonostante tutto ecco come a distanza di decenni si trovasse qualcuno che sapeva, conosceva, costui si era sempre taciuto, d'altronde il suo comportamento pur riprovevole secondo certi punti di vista, non era da considerarsi criminale. Riandava con la mente alla fine del conflitto, quando finalmente riprese ad uscire a passeggio per le strade della città, la madre gli disse "Ti hanno visto
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in giro mi hanno chiesto di te, ti davano per morto", e Lui duro:
"Mamma cosa hai risposto ? hai detto che vengo dalla Russia",
"No Bruno, ho parlato come volevi tu, ho detto che sei rimasto a lungo in
un ospedale militare a causa di una brutta broncopolmonite", "Mamma
non devi dire a nessuno hai capito a nessuno dove ho combattuto", "Sì
Bruno non ti preoccupare". Qualcosa si era saputo in giro, sua moglie
addirittura conosceva il suo soprannome, certamente nella penombra di qualche
salotto il suo nome era stato fatto, qualche storia era stata raccontata, era
pur vero che il suo ruolo di "cattivo", non era stato tale da
risultare in alcun processo d’epurazione, era in ogni modo additato tra quelli
del passato regime e non degli antifascisti. Rientrato in casa, si diresse
tutto preso dall'agitazione in cucina, sua madre non c'era ad aiutarlo, sua
moglie neppure, entrambe morte si ritrovava completamente solo, con quel
maledetto scrittore, descrittore insuperato di lamenti, là... fuori, ripensava
a tutti gli sforzi fatti per ricrearsi una nuova vita sino a diventare un alto
dirigente d'azienda, ancora additato com’esempio di serietà e impegno professionale,
e adesso la sua reputazione correva un serie pericolo. Si sentiva stravolto,
tutto agitato, il pensiero di non poter più uscire tranquillamente per le sue
passeggiate, per le normali faccende della vita quotidiana, lo angustiavano
enormemente, cosa voleva da lui quello scrittore ebreo e piagnucoloso.
Camminava avanti e indietro per la cucina, rimuginando questi pensieri, con il
passare delle ore, l’agitazione gli cresceva dentro, occorreva
- 179 -
porre rimedio al più presto a quella situazione veramente pericolosa. Tutti i
suoi tormenti rispuntavano fuori ingigantiti, si stava formando in lui uno
stato mentale penosamente abnorme, sentiva come assolutamente impellente
risolvere questo problema, e risolverlo alla sua maniera, per uscire da questa
situazione incresciosa non c'era altra uscita, il delitto! Rimase tutta la
notte alzato, camminando avanti e indietro per le stanze, sentiva come dei
martelletti battergli sulle tempie. Sapeva dove abitava l'ebreo, dopo
l'incontro non si era allontanato del tutto da lui, ma fatti alcuni passi
ritornò indietro e scorgendolo mentre camminava lungo il Corso Re Umberto, lo
pedinò sino a che non lo vide entrare in un portone, aspettò qualche minuto,
dopo di che avvicinatosi al portone, osservò l'androne con occhio
"tecnico", a sinistra c'era la guardiola posta in modo da osservare
chiunque salisse per le scale, queste salivano su lasciando nel mezzo un ampio
spazio, sulla destra c'erano le caselle della posta, accanto ad esse sempre
sulla destra in alto una scritta dipinta sul muro: "vietata la
questua". Erano le cinque del mattino, preso dall'armadio un cappotto
nero, e dei guanti di pelle, neri anch'essi, infilatiseli uscì, un pensiero
fisso e martellante l'accompagnò nel suo vagare mattutino per le strade,
eliminare quel testimone tanto deciso e pericoloso, certo penalmente non poteva
fargli niente, ma la sua immagine ne sarebbe rimasta scossa, come avrebbe potuto
girare in città
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con quel maledetto in mezzo ai piedi. Talvolta questi pensieri sparivano
completamente dalla sua testa, e per qualche istante si meravigliava di
trovarsi a quell'ora del mattino, e con quei vestiti indosso in giro per la
città, per poi ritornargli di nuovo la memoria con questi pensieri tutti
presenti e angoscianti. Camminava con passo svelto la testa bassa guardava
sempre e solo il marciapiede, la sollevava solo il tempo strettamente
necessario per attraversare la strada, a volte si fermava, sentiva nascergli
dentro improvviso la sensazione di commettere un incredibile sciocchezza, il
tutto durava un attimo, e il suo folle proposito riprendeva tutto il posto
disponibile nella sua testa. Arrivato di fronte al portone del palazzo ove
abitava lo scrittore si fermò guardatosi intorno si accertò che nessuno fosse
nei paraggi, allora con passo deciso lo varcò fermatosi di nuovo rimase alcuni
attimi nell'androne del portone con le orecchie tese a catturare qualsiasi
rumore, nulla, con circospezione si diresse verso le scale fece il primo
gradino, si fermò ad osservare la guardiola, non c'era nessuno, alzando gli
occhi verso la cima delle scale non vide nessuno, silenziosamente prese a
salire per le scale il più velocemente possibile, il cappotto sbottonato gli
svolazzava tutt'intorno, il fiato gli si faceva grosso, ansava a bocca aperta,
passando davanti alle porte leggeva brevemente il nome di chi vi abitava, finché
incontro quello dello scrittore, ora doveva aspettare e sapere cogliere al volo
il momento buono,
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in questo tipo d’imprese ci vuole anche fortuna lo aveva ben compreso quando si
aggirava negli edifici semidistrutti di Stalingrado, andato sul pianerottolo
del piano superiore e sdraiatosi in terra, rimase fermo nell’attesa di
sfruttare un'opportunità qualsiasi per entrare nell'appartamento, stette in
quella posizione diverso tempo senza farsi sorprendere da alcuno. Dopo
quarantaquattro anni era di nuovo in guerra, come allora occorreva saper
aspettare il momento propizio, l'attenzione sempre massima non doveva mai
calare, con tutti i sensi vigili nel percepire la minima variazione ambientale.
Ora che il suo proposito era in una fase avanzata d’attuazione, la tensione
della notte insonne era svanita, si sentiva tranquillo,
sereno il bello della trappola è la sorpresa assoluta, il suo nemico, non
poteva, non doveva sospettare assolutamente nulla, questo lo rendeva fiducioso
sull'esito dell'impresa, chi anche vedendolo poteva sospettare qualcosa,
l'aspetto senile rappresentava un aiuto assolutamente efficace in quella
circostanza. L'esperienza gli aveva insegnato come fosse quasi impossibile in
quelle situazioni essere riconosciuto, soprattutto in questa città ove chi ti
passa accanto raramente alza gli occhi per osservarti. Nell'attesa i suoi
pensieri erano rivolti solo ed esclusivamente sull'ambiente circostante. Verso
le dieci qualcuno prese l'ascensore fermandosi al piano sottostante ove si
trovava, sentì un campanello suonare ed una porta aprirsi; Era la portiera,
stava consegnando della posta allo scrittore. Quando costei riprese l'ascensore
per ritornare giù, ridiscese la scala, bussò appena con le nocche alla porta
dell'appartamento, immaginando che costui non si fosse allontanato di molto
dalla porta, difatti dopo qualche istante la porta si aperse,
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era lo scrittore, guardò Bruno, in un primo momento rimase interdetto, poi
comprese cosa voleva da lui, allora uscito sul pianerottolo, alzando il dito, e
con voce bassa, decisa esclamò: "Tu..tu..", Bruno l'afferrò e
alzatolo di forza sopra la testa lo fece precipitare nella tromba della scala
seguendolo con gli occhi sino a quando sbatté al suolo, comprese subito che era
morto, risalito al pianerottolo di sopra rimase fermo aspettando il momento
opportuno per andarsene, dato il caos che di lì a qualche minuto si sarebbe
creato laggiù dabbasso non sarebbe stato difficile svignarsela impunito. Nei
giorni che seguirono si rasserenò per due motivi: primo, un pericoloso
testimone del suo passato era scomparso, secondo, l'ipotesi del suicidio era
stata accettata sia dalla stampa sia dall'autorità giudiziaria, il sospetto di
un delitto non ebbe nessun seguito.
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SCRITTORE DEI MIEI STIVALI... |
in Ottobre Torino sfoggia la sua luce migliore, parlo proprio di luce fisica in
questo mese la luce del sole specie nel primo pomeriggio da alla città un
impronta particolare, chi la visita per la prima volta in questo mese comprende
meglio il carattere della città, le sue virtù, la sua positività esistenziale,
ricorda molto una Dublino più sobria, Bruno, come tutti i pomeriggi portava a
passeggio la sua barboncina. per uscire si vestiva secondo un cliché fissato
negli anni. Completo in principe di Galles, spolverino bianco, cappellino a
cencio grigio chiaro, questa certa eleganza metteva in risalto il suo
comportamento che detto in breve aveva molto del "vecchio citrullo tutto
rimbambito". Alcuni ragazzini quando lo vedevano passare mormoravano
ridacchiando "arriva gessetto". La sua passeggiata arrivava sino nei
pressi dello stabilimento ove aveva lavorato prima d'andare in pensione lì si
fermava a rimirare la palazzina del mistero, la quale nel rinnovamento generale
costruzioni, stonava alquanto, per lo stile e per lo stato d’abbandono. Sapeva
della decisione di abbatterla, ma dalla direzione non era mai arrivato il nulla
osta ai lavori. Dell'esistenza dell'ospite nessuno sapeva nulla escluso lui e
il padrone della fabbrica, la "cosa" giaceva ancora nei sotterranei
In lenta, lentissima metamorfosi, quando questa si sarebbe compiuta ? avrebbe
assistito alla sua conclusione ?
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Del padrone si raccontavano ancora in giro soprattutto nel circolo che lui
frequentava i suoi peccati di gioventù, sicuramente ora dopo tutti i tentativi
fatti per liberarsene si era rassegnato ad aspettare la conclusione della
vicenda. Non conosceva certo i particolari della metamorfosi, né come questa si
svolgeva, sapeva solo che là nei sotterranei c'era il "Corpo", e che
questi si difendeva e anche bene da tutti i tentativi messi in atto per
eliminarlo. Eppure sarebbe bastata una semplice ruspa e in un'ora tutto si
sarebbe risolto, ma l'ordine moriva in bocca al nostro padrone. Lui stesso gli
aveva chiesto delucidazioni, l'allora giovane proprietario, lo aveva dapprima
guardato perplesso, quindi disse
"Lei non tocchi niente, aspetti una mia personale disposizione".
Aveva letto delle pubblicazioni riguardanti il personaggio politico il cui
"Corpo" ora giaceva in quel sotterraneo, ed anche alcuni suoi
scritti, tra cui i Quaderni dal carcere, ripensava ad alcuni articoli molto
polemici contro un personaggio "professore universitario" dalle idee
abbastanza amene cui dava con piglio deciso, una valenza scientifica, ad
esempio era convinto che il grado di moralità delle persone fosse strettamente
correlata al fatto di vivere in altitudine, comunque sia all'epoca in cui visse
era persona ascoltata. mentre rimuginava
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questi pensieri dal cancello d'uscita della fabbrica provennero delle urla,
vide un uomo di statura veramente alta, e con una grandezza delle membra
davvero impressionante, stava facendo volare per aria alcuni sorveglianti che
evidentemente tentavano di bloccarlo, l'uomo dall'aspetto di un barbone, senza
scarpe, con barba lunga e capelli arruffati portatosi sulla strada si rigirò
verso il cancello sollevando una mano stretta a pugno e agitandola apostrofò
con voce grossa e metallica i sorveglianti: "figli di cacatorari non mi
rompete le balle, altrimenti vi bastono tutti con il mio merlo", quindi
incamminatosi a grandi passi per il marciapiede in breve scomparve dalla vista.
Bruno lo aveva riconosciuto e si godette la scena tutto estasiato, la lunga
attesa era terminata finalmente, il processo di metamorfosi del corpo si era
concluso, dopo un periodo d'incubazione durato cinquant'anni; pensò tra se:
"certo ai prodigi laici manca la perfezione e la rapidità di quelli
religiosi, cosa sarebbe successo ora". Rasserenato per aver assistito
all'epilogo di quella bizzarria della natura, s'incamminò verso casa tutto
lieto, la sera andava approssimandosi c'era della foschia, camminava tutto
assorto su quanto aveva visto. Improvvisamente tre tipacci gli si pararono
davanti, erano degli slavotti, li sapeva riconoscere all'istante, comprese
subito cosa volevano da lui: rapinarlo!, lasciò il guinzaglio della barboncina
che tutta contenta di quella libertà inattesa, scappò via tutta contenta,
lontano finalmente da quel padrone avaro di carezze.
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Bruno rivedeva nei suoi aggressori i suoi compagni notturni, gli
"Automi", si preparò ad affrontarli, aveva tutte le carte in regola
per scrocchiare le loro ossa, non avrebbero fatto in tempo a capire quello che
stava loro capitando. I tre slavi lo aggredirono a calci, pugni, e colpi di
coltello, Bruno stramazzò subito a terra ferito e tramortito i tipi lo
frugarono, gli presero il portafogli, l'orologio, le fedi, la catenina della
moglie che portava sempre al collo dal giorno della sua morte, quindi
s'allontanarono correndo.
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COSÌ AVVENNE
CHE DIVENNNE SCEMO DEL TUTTO |
Ritornato in sé il suo primo gesto fu di portare la mano al petto, cercava la
sua mannaia. Una rabbia gli montava dentro, lui il "Sergente
Mannaia", aveva combattuto a Stalingrado facendo strage di slavotti,
decise di ucciderli appena si fosse rimesso in piedi, nel mentre sentì dei gran
passi avvicinarsi, pur cosciente si trovava tuttavia sdraiato in terra,
immobile e senza forze, e non riusciva a vedere chi fosse, comprese che
qualcuno stava parlandogli, "Bruno, tu, non hai mai capito un cazzo, nella
tua vita di merda", finito di parlare questo qualcuno s'allontanò, con uno
sforzo riuscì ad aprire gli occhi e ad alzare la testa quel tanto che bastava
per intravederlo, era il "Corpo", rifletté: "Beh' come
metamorfosi non c'è male". Fu soccorso, portato in ospedale, sottoposto a
vari interventi chirurgici; sopravvisse all'aggressione, ma il recupero fisico
fu lento e difficile, camminare gli era divenuto difficile, faceva delle
piccole camminate stancandosi presto, si era reso necessario l'uso di una carrozzella
per paraplegici.
Bruno conobbe Eugenio poco dopo il ritorno a casa dall'ospedale, accadde che
alcuni caloriferi perdettero dell'acqua, ed il portiere lo fece intervenire per
ripararli. Eugenio s'arrangiava con questi lavori per arrotondare il salario,
tra i due si stabilì un certo filling, il che indusse Bruno a parlargli di
questa storia. Descrisse il posto con precisione e dato che anche lui era un
dipendente dell'azienda gli consegnò la chiave passpartout invitandolo ad
esplorare il luogo, disse esattamente: "Vai anche tu a vedere con i tuoi occhi
che non racconto balle, altrimenti mi prendi per un cioccolataio".
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Effettivamente Eugenio all'inizio lo prese per matto, comunque, considerando
che quanto udiva proveniva dalla bocca di un ex alto dirigente dell’azienda,
comprese l'importanza d'effettuare un ispezione esplorativa per ricercare i
"riscontri oggettivi" su quanto l'ingegnere andava raccontandogli. In
base alle indicazioni ricevute penetrò dentro la palazzina arrivando sino alla
cella, ovviamente oramai vuota, guardatosi intorno notò come tutto collimasse
con la descrizione fattagli dall'ingegnere, notò in un lato del lettino in
pietra una fessura, avvicinatosi con la torcia per osservare meglio, vide un
Quaderno, lo prese l'aperse, non c'era scritto nulla, lo rimise al suo posto,
addossata al muro di fianco alla porta c'era una panchetta di legno e sopra un
altro Quaderno lo sfogliò alcune pagine erano scritte, se lo mise dentro una
tasca della tuta. In un angolo del pavimento giaceva una coperta di lana del
tipo in uso nell'esercito, la raccolse e ripiegatala con cura uscì dalla cella
stringendo la coperta al petto, ripercorse le scale a chiocciola e finalmente
uscì dalla palazzina. Andato difilato a casa sua mise la coperta sopra una
sedia, rimase ad osservarla a lungo, gli pareva ancora in buono stato di
conservazione, non puzzava, pareva appena uscita dalla fureria. Questo tipo di
coperte militari, erano famose per la loro ottima fattura, conservate in luogo
adatto rimanevano
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intatte per decenni, l'ispezionò ben bene non rilevando nulla di particolare,
era solo una banalissima coperta militare. La mise dentro una borsa, sfogliò il
Quaderno, le pagine scritte erano appena tre, non riuscì a comprendere bene le
parole, le avrebbe letto in un altro momento, ora voleva uscire andare a casa
di Bruno. Arrivato gli fece vedere la coperta, Bruno la prese in mano, e
stringendola forte a se come preso da sussulti con le lacrime che gli uscivano
abbondanti disse: "Eugenio devi averne la massima cura, questa è la nostra
SINDONE". Eugenio rimase fermo ad osservarla, molti dubbi gli salivano
nella mente, cercava di dare ad essi un ordine in priorità, desiderava essere
incisivo, pratico e concreto nell'esprimerli: "Ingegnere perché non ha
chiamato i carabinieri", Bruno lo guardò con stupore, ripresosi, gli disse
"Sì la cosa è grossa, ti racconterò per filo e per segno com'è iniziata
questa storia, e perché mi sono comportato in un certo modo, anche perché siamo
solo in tre a conoscere quel
posto". Da quel giorno Eugenio prestò alle parole di Bruno la
massima attenzione, scrivendo su di un quaderno tenuto in forma di diario, la
vicenda come lui andava man mano narrandogliela. Era estate, tutti i giorni
Eugenio finito il lavoro andava da Bruno il quale lo aspettava con ansia, si
faceva trovare pronto nella carrozzella da invalidi, uscivano e durante queste
passeggiate, in una specie di confessione liberatoria, a volte penosa, raccontò
tutto ad Eugenio.
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Chi li osservava in questo loro andare a passeggio e parlare, davano proprio
l'impressione di due pici che in qualche modo s'accompagnavano. Il portiere
accortosi dello strano connubio tra i due tentò di interrompere questa loro
amicizia, inutilmente. E da dire che finita l'estate finì anche il loro andare in
giro in quel modo, Eugenio portando la carrozzina e con la testa sempre bassa
vicino a quella di Bruno il quale gli parlava, piano con la bocca rivolta verso
di lui gesticolando continuamente con le mani per tutto il tempo della
passeggiata. Eugenio assistette all'agonia e alla morte di Bruno. Accadde pochi
mesi dopo il ritorno a casa, una notte risvegliatosi da uno dei suoi soliti incubi
ove gli automi lo avevano come il solito picchiato di santa ragione, gli parve
di scorgerne alcuni di fronte al letto, tutto secondo copione, sempre uguale
negl'anni, alzatosi da letto e girando faticosamente per le stanze pregava loro
di
andare a fare in culo. Un dolore improvviso, forte, indicibile al petto lo
costrinse a fermarsi, concentrò tutti i suoi sforzi per dirigersi verso
l'ingresso, qui dovette fermarsi ancora, e appoggiando rudemente la mano su un
mobiletto s'aperse lo sportello, alcuni soldatini di cartapesta si rovesciarono
in terra, Bruno nonostante il dolore, rimase meravigliato, e riandò con i
ricordi ai tempi della sua fanciullezza, quando un giorno il padre glieli tolse
brontolando, "Questi", gli disse mostrandoglieli "non sono giochi
adatti ad un ragazzo della tua età".
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Giusto come era possibile per un ragazzo di quindici anni divertirsi ancora con
quei soldatini, come mai erano finiti là dentro, forse era stata la muta nel
riordinare in casa. Il dolore lancinante al petto lo distolse da quei ricordi,
si mise la mano sul petto, guardandosela riflesse "È logora, il mio corpo
è logoro, consumato, non riesce a lavorare efficacemente, sono al termine, alla
fine oramai", questi pensieri in verità non l'angosciarono più di tanto,
era parecchio tempo che aveva smesso di lottare contro il decadimento di
se stesso, il suo motore troppo sfruttato stava per fermarsi, con uno sforzo
raggiunse la porta, apertala si mise ad urlare per le scale, cadde a terra, si
sentiva spossato, inerme, e mentre cercava invano di rialzarsi, gli parve
d'intravedere un ombra appressarsi a lui, la riconobbe: Elisabetta, che l'abbracciò
lo baciò, sentì la sua voce sussurrargli: "Sono la tua vita Bruno, sono la
tua vita che ti abbandona. Solo verso il mattino quando il portiere iniziando
il suo lavoro notò in terra un berretto da letto, sorrise pensando: "Ha
fatto il giro di ronda anche stanotte l'Ingegnere", alzando gli occhi in
alto verso la tromba delle scale vide una mano sporgere, salito s'accorse che
era l'Ingegnere, chiamò la croce rossa, fu ricoverato di nuovo, Eugenio andò a
trovarlo. Bruno agitato gemeva dalla disperazione non per la paura di morire,
ma perché la debolezza del suo stato aveva fatto riemergere con nuova vigoria
fantastica tutti quei mostri, "Automi grigio antracite", li definiva così, che più o
meno sopiti erano sempre stati presenti in lui. Dei suoi ultimi istanti di
coscienza Eugenio raccontò che affacciatosi alla porta della sua stanza in
ospedale il sacerdote per impartirgli l'estrema unzione, Bruno s'alzasse con il
busto aiutandosi con una mano, mentre con l'altra afferrata una bottiglia
d'acqua minerale posta sul comodino, gliela tirasse addosso, ricadde quindi sul
letto, entrando in stato comatoso e di lì a qualche ora morì.
- 192 -
Il portiere rispettando le consegne ricevute avvisò il figlio solo a decesso
avvenuto, questi venne a Torino per predisporre i funerali del padre. Eugenio
assistette alle esequie standosene lontano, c'era già troppa gente, non voleva
creare ulteriore ressa con la sua mole. Oltre a due sorveglianti in divisa
d'onore mandati dall'azienda ove aveva lavorato per tanti anni e al figlio,
erano presenti due persone anziane in rappresentanza del circolo ex dirigenti
d'azienda. Gli venne da pensare che anche il suo funerale avrebbe avuto la
stessa folla anche lui aveva diritto al seguito di due sorveglianti per via
dell'anzianità in azienda, bella soddisfazione ma chi avrebbe preso cura della
sua tomba ? chi ?.
- 193 -
CIUCHI
D'OSTERIA |
Riguardo al "Corpo", Eugenio sosteneva di averlo incontrato una sera
in una piola (osteria torinese), Raccontò di come mentre stava cenando con una
piola, addentando di tanto in tanto un salame e con gusto staccandone un pezzo
per mangiarselo, il tutto accompagnato da un robusto boccione di barbera, un
pugno poderoso s'abbatte sul suo tavolo accompagnato da un rutto anche esso
poderoso, Eugenio per nulla scosso alzò il capo per osservare chi fosse, una
testa enorme dagli zigomi sporgenti con i capelli crespi e irsuti l'osservava
ghignando, Eugenio gli parlò: "Testun non ti ho mai visto bere dal mio
merlo", il "Corpo" girò la testa intorno e disse, rivolto agli
astanti: "Saluto Eugenio il Picio di Porta Castello e dintorni",
puntando la mano verso di lui a mo di sbeffeggio. Eugenio gliela prese,
iniziarono un braccio di ferro, violento e feroce che fece sobbalzare tutti i
presenti i quali sapevano della forza fisica di Eugenio che comunque
soccombette dopo breve lotta. Il "Corpo" gli propose una rivincita a
chi scolasse più boccioni di barbera (Boccioni Piemontesi da due litri
ciascuno), soccombendo anche in questo caso. Gli chiese che lavoro svolgesse e
costui ridendo rispose "il saldatore, il saldatore di popoli".
Un'intuizione attraversò la mente di Eugenio guardando il Testun e una domanda
gli salì sulla bocca "Testun, tu per caso hai conosciuto L'ingegner Bruno
Ferreri", il "Corpo" lo guardò silenziosamente per qualche
istante quindi alzatosi gli rispose: "Va la voi due a spasso formavate una
coppia di pici, anzi questo è un complimento, diciamo una coppia di scemi come
mai
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se ne sono visti in questa città bastarda, neppure al Cottolengo nei suoi
giorni migliori non ha potuto mai annoverare una coppia di tale levatura".
Al di là delle battute da osteria Eugenio comprese di trovarsi di fronte
all'oggetto della metamorfosi raccontatagli da Bruno, mille domande gli
salivano alla mente, una aveva maggior forza rispetto alle altre, quale
collegamento c'era tra il "Corpo" attuale e quello passato, insomma
costui sapeva chi era stato in passato. Il "Corpo" come intuendo i
suoi pensieri, l'apostrofò: "Vedi Eugenio si può e si deve vivere senza
comprendere il significato o semplicemente conoscere la maggior parte delle
cose che ci circondano, ma guardare avanti nella vita senza fossilizzarsi in
ricordi o fatti incresciosi, tu dopo la morte di tua moglie e tua figlia,
invece di tornare a nuova vita seguendo l'istinto primario che è quello della
prosecuzione della specie ti sei fossilizzato nei ricordi
senza concludere niente di buono nella vita". Eugenio rivolto ai pochi
presenti rispose "Ha parlato spara sentenze". Un avventore poco
distante alzandosi e avvicinandosi tutto traballante chiese al
"Corpo" : "Sei un mandarino", "peggio" gli
rispose questi, "E' raro trovare un mandarino che comprenda tanto bene il
nostro dialetto" continuò l'avventore, "Beh sarà venuto qua da
piccolo", "Imbecille sono venuto dentro tua madre, Io", "Se
avevi proprio bisogno, è possibile", gli rispose questi. A questo punto
l'ambiente s'era abbastanza riscaldato ed il primo avventore
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ritornò alla carica, "Ehi prosegui con me quella gara", "Come
vuoi, Oste porta qui un'altro boccione", "Hai i denari", Il
"Corpo" tirati fuori della tasca dei pantaloni un bel gruzzolo di
biglietti da centomila e mostratoli a tutti i presenti esclamò "Stasera.
ultima sera, pago Io ai miei compagni avvinazzati". L'oste corse con due
boccioni nuovi al suo tavolo. Eugenio tutto divertito dallo spirito allegro
dimostrato dal "Corpo" e come questo suo spirito avesse contagiato
tutti i presenti lui compreso, fece il pieno del suo bicchiere con il vino,
subito imitato dagl'altri compagni della serata, alcuni salami molli caddero
sui tavoli, furono subito presi e addentati, invero non s'aspettava da quel
solone del passato tanto spirito ameno, probabilmente ora era veramente
un'altra persona, come d'altronde succede a molti, quando
sia il passare del tempo, sia il mutare ambiente facilita una trasformazione
del carattere, della personalità a tal punto che quello che eravamo come
persona è molto lontano da come si è in seguito e solo un bagaglio di memoria
più o meno ampio ci ricollega al nostro "essere stati" del passato.
Tutti divertiti da quell'offerta di buon vino divennero compagnoni, ciascuno
raccontava qualcosa di se, alcuni si misero a parlare di politica subito
tacitati dal "Corpo" che esclamò "Questo è un ambiente
serio". Un avventore anziano alquanto gli s'avvicinò e guardatolo ben bene
negli occhi gli chiese: "Mi pare d'averti conosciuto da qualche parte, ma
tanti anni fa, ma forse mi confondo, tu non eri ancora nato all'epoca".
Una donna divertita iniziò a battere delle nacchere alzatasi si mise a ballare
sempre battendo le nacchere, tutti la guardavano divertiti e sorpresi.
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Un avventore ponendogli una mano sul braccio disse: "Sai io sono il figlio
illegittimo dello Zar Nicola secondo, guarda ! osservami di profilo noterai una
rassomiglianza agghiacciante", rispose il Corpo: "Beh allontanati
allora che qui fa già abbastanza freddo", Una donna vecchia e brutta,
tutta storpia gli raccontò quanto le era successo la notte precedente, era
stata violentata a ripetizione da una ventina d'africani, ancora le faceva
tutto male lì sotto, altri risero di gusto sbeffeggiandola "Mirandolina
tutti i giorni ci racconti questa storia, dicci da quanti secoli sei a secco",
un'altra voce esclamò "Ma era notte buia buia neh!". Eugenio gli si
fece accosto e quasi sfiorandogli l'orecchio gli chiese:
-"Cosa hai in mente di fare ora",
-"Un cazzo"
-"Come tu !, chiunque ti seguirebbe, potresti sistemare il mondo, una
buona
volta",
-"Il mondo come tu dici non ha bisogno di me, in verità ti dico che il
mondo migliorerà senza bisogno di profeti e altre divinità",
-"Sì ma intanto tanta gente soffre",
-"Si scazzano",
-"Spiegami com'è potuto accadere che tu sia ora quello che sei",
Il "Corpo" guardandolo con espressione divertita rispose:
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-"Sai che non lo so neppure io, comunque per me è stato come trovare un
buon portafoglio per terra, ne ho approfittato e basta", -"Ho saputo
di una tua sofferenza laggiù", -"Acqua passata oramai, bevi Eugenio,
e non pensare ad altro", Eugenio interdetto dette fondo al bicchiere di
Barbera, pensava e ripensava tutta questa storia non poteva di certo finire in
questo modo, era indubbio che costui qualche potere strano doveva averlo,
sicuramente sapeva leggere nel pensiero. Il Corpo guardandolo in modo beffardo
gli rispose: "Eugenioooo, hai indovinato ho qualche capacità fuori del
comune, che però userò per me personalmente". Disse il tutto
accompagnandolo con una sghignazza, una sorsata di barbera condita da un rutto
sonoro e poderoso. La donna continuava a ballare, lentamente ora, le sue
nacchere battevano piano, una voce dal fondo disse "Balla gnocca".
Venne l'ora di chiusura, iniziarono ad alzarsi, uno di questi, quello che
maggiormente puzzava di vino, avvicinatosi al "Corpo" ed osservatolo
ben bene, gli disse "Ho sentito dire di uno.. tempo fa neh.. che uscito
dalla tomba dov'era stato infilato ne è uscito, dicono che ha preferito
cambiare aria, per via di un brutto tiro combinatogli da alcuni suoi amici per
un lavoro che aveva fatto". Uscito anche Eugenio dall'osteria rimase fermo
ad osservare il "Corpo" mentre usciva, non poté fare a meno di notare
che andava a piedi scalzi, una profonda
considerazione sulla varietà dell'esistente: "Ecco, il bue che dice
cornuto all'asino". Una macchina sbucò dalla nebbia avvicinatasi al
"Corpo", Eugenio vide discenderne una donna, urlava forte
strappandosi gli abiti: "Ti prego prendimi, fammi godere ancora, ti
pagherò bene, ti coprirò d'oro", il "Corpo" l'allontanò da se
bruscamente, "Oscio vacca vai in osteria là troverai altri
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manici". Eugenio meravigliato da quella scena, sogno tipico di tutti i
"baracchini"
lo vide sparire ben presto avvolto nella nebbia notturna, il resto della
compagnia uscì alla spicciolata, chi barcollando chi inveendo contro il mondo,
ognuno prese la propria strada e in breve tutti sparirono. Eugenio rimase fermo
davanti l'osteria, ripensava al discorso intercorso tra loro, chissà se
l'avrebbe rivisto ancora, si rammaricò del fatto di non essere riuscito a
cavargli gran che dalla bocca, certo uno come il suo amico Bruno sarebbe stato
capace di fargli le giuste domande, Io pensava Eugenio ignorante come sono,
poco consapevole delle cose della vita, come potevo avvicinare i suoi pensieri
ai miei. Uscì anche l'oste e dopo aver chiuso le saracinesche dell'osteria
s'avvicinò a Eugenio, "Oh quello che bel tipino, speriamo che venga
ancora, hai visto come ha animato tutto l'ambiente, fosse sempre così andrei a
vivere al Valentino", Rispose Eugenio "Non credo che verrà più",
"Ha.. peccato, questa sera ho fatto la mia pagnotta", dicendo questo
tirò fuori la banconota da centomila la mise sotto la luce del lampione, dopo
essersela gustata con gli occhi la rimise in tasca, e fischiettando piano s'allontanò
scomparendo in breve nella nebbia.
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Eugenio rimasto solo continuò a rimirare la saracinesca abbassata dell'osteria
provava un sentimento simile a chi ha mancato un tredici al totocalcio per il
semplice fatto di non aver giocato la schedina. Cosa poteva fare ora per la
"Storia", come poteva rivelare al mondo che c'era in giro per le
strade di Torino un uomo oggetto di una metamorfosi, come poteva pretendere di
essere creduto, d'altronde costui era ritornato non per proseguire nella sua
opera politica ma solo con la pretesa di vivere una vita normale e
possibilmente divertente, forse sapeva chi era stato in passato, forse no,
comunque se ne era andato per la sua strada. Neh pensò Eugenio forse il nostro
ingegnere ha vissuta la disperazione propria di chi pensava d'essere prescelto
come apostolo, invece il "Corpo" come accaduto in alcune religioni
appena rinato se n'è andato tranquillamente per i fatti suoi. Si spostò di
alcuni metri e addossandosi ad un muro vicino svuotò la vescica, poi
s'incamminò verso casa, ad un certo punto una voce forte prese a forare la
nebbia e chiamarlo per nome, Eugenio alzò la testa speranzoso di rivederlo e
gridò di rimando "Neh…", come risposta ebbe un verso di pernacchia e
una frase "saluti e baci".
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GENTILE SIGNORE "LO" TENGA DURO SIAMO ALLA FINE
CONCLUSIONE
Del "Corpo" non ho saputo mai nulla, personalmente non l'ho
conosciuto, quindi non sono in grado di riconoscerlo. I "riscontri
oggettivi" sono tutti scomparsi. Forse a Torino da qualche parte, forse a
Porta Palazzo al Balin del sabato mattina potrebbe esserci la coperta militare
che per cinquant'anni ricoperse il "Corpo".
- 201 -
ULTIMA PAGINA
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